Genetica, latte, formaggio: è il momento di dare a ciascuno il suo

Il buon fieno nasce nei buoni pascoli polifiti; qui l''erba appena sfalciata a Cascina Roseleto, a Villastellone (Torino). L'azienda ha riconvertito da intensivo ad estensivo nel 201 - foto Cascina Roseleto©
Fieno di qualità – foto Cascina Roseleto© – Lait Real©

 20 febbraio 2015 – La domanda che il lettore Francesco Tiezzi, ha posto nell’articolo precedente – “ora che si fa?”(1) – è chiara, semplice, e merita una risposta. Provo a esporre il mio pensiero partendo dall’esperienza personale. Negli anni scorsi, quando venivano giovani o meno giovani imprenditori che volevano intraprendere l’attività di allevatore, la prima cosa che mi chiedevano era: che razza devo allevare? Già da questa domanda si possono estrapolare gli effetti perversi che la cultura della genetica ha generato. Io rispondevo a tutti che il problema non è la razza, bensì la strategia produttiva.

L’allevatore non può pensare solo a produrre e non preoccuparsi poi del mercato. Quindi dicevo: prima scegli la fascia di mercato in cui vuoi collocare il prodotto e poi ti dico non la razza, ma come si fa per raggiungere quell’obiettivo. La razza, quindi la genetica, sono uno strumento, un mezzo, non “il” mezzo. Naturalmente tutti se ne andavano convinti di aver perso tempo e viaggio. Non è un caso che oggi pressoché tutti gli allevamenti hanno strutture e attrezzature sovradimensionate e che servono a poco o inutilmente dispendiose (unifeed, falcia-condizionatrice, carro miscelatore, razze selezionate, trattori enormi, campi monofiti) e non hanno invece quello che veramente serve (fienili adeguati, campi polifiti).

Cosa fare allora? Ricordando il vecchio aforisma di Seneca: “a che serve la brezza al marinaio se non sa dove dirigere il timone”, la prima cosa che deve fare l’allevatore è decidere in quale fascia di mercato vuole posizionare il suo prodotto. Capisco che oggi è complicato, perché il vero danno di questa cultura dell’intensivo è quello di aver appiattito il range dei prezzi. Oggi fra un formaggio  e un latte di grande qualità e uno scadente la differenza è minima. Negli altri settori produttivi è enorme, basti pensare al vino, all’olio, alla birra, ecc. Se non allarghiamo questa forbice, la zootecnia è destinata a svolgere un ruolo marginale.

Una volta individuata questa fascia, s’interviene con un’alimentazione adeguata. In campo umano si dice che l’alimentazione è alla base della salute e della felicità. Lo stesso vale per gli animali.  L’alimentazione determina la qualità del latte, il benessere dell’animale, la fertilità dei suoli. A questo punto avremo diversi modelli di allevamento, ciascuno dei quali presenterà degli aspetti, dei problemi o anche delle specificità che potranno trovare soluzione o anche essere migliorati o valorizzati attraverso una sana genetica. Quindi, la genetica deve entrare dopo l’alimentazione e non prima.

Con una sana alimentazione le vacche per prima cosa faranno la hola, riacquisteranno salute e benessere e produrranno latte di qualità.

Nella nostra esperienza sul Latte Nobile il grande problema è il fieno. L’intensivo, la monocoltura hanno destabilizzato e annullato il concetto di qualità dell’alimento. Oggi trovare un buon fieno è una fatica improba. Poi va affrontato il problema del mercato. Come e cosa facciamo per far capire al consumatore che il latte non è tutto uguale, che i formaggi sono profondamente diversi fra loro?

Nel nostro piccolo un poco di esperienza l’abbiamo fatta ed abbiamo tutto riportato nel volume: “Il Modello Latte Nobile”, che il lettore può scaricare dal sito www.lattenobile.it.

Tutto qui, il modello è semplice, il latte non è tutto uguale, non dobbiamo miscelarlo, dobbiamo legarlo al territorio e all’allevatore e far capire al consumatore queste differenze. Sapendo anche che, come il latte non è tutto uguale, così i consumatori non sono identici. La regola deve essere: dare a ciascuno il suo.

20 febbraio 2015

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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(1)
D’accordo sulla cattiva gestione del miglioramento genetico in Italia, ma ora che si fa?

scritto da Francesco Tiezzi, 18 febbraio 2015 

Non posso negare (e infatti non l’ho fatto) che la gestione del miglioramento genetico in Italia sia (stata) pessima, e i prossimi anni non si preannunciano meglio. Non mi pare una situazione molto diversa da quello che accade in altri settori. 

Una cosa è certa (e qui sono più che d’accordo): costerà montagne di soldi, molti dei quali spesi proprio male. 

Detto questo, che si dovrebbe fare ora? 

1- Di sicuro ridurre lo sperpero di denaro, per esempio accorpando le diverse associazioni nazionali allevatori per quanto riguarda le valutazioni genetiche. Un singolo ente, con 5-6 dipendenti potrebbe fare tutto senza alcun problema. 

2- Aggiornare gli obbiettivi di selezione. Basta con la solita proteina, caseina e grasso, oggi si più selezionare per vacche più robuste e frugali, con mammelle più sane e che necessitano meno ‘inputs’. Questo non vuol dire che nasceranno vacche che si mungono da sole, ma penso che vacche meno suscettibili a cambi di dieta repentini possano essere utili in sistemi produttivi alternativi a quelli intensivi (questo per fare un esempio). 

3- Aggiornare la tecnologia. In Italia siamo sempre indietro di 10 anni rispetto al nord Europa, quando siamo fortunati. 

Perché tutto questo non viene fatto? Non per colpa dei genetisti, che tra l’altro non scelgono gli obbiettivi selettivi (come noto, sono le commissioni tecniche centrali che dirigono la selezione di una razza) ma per colpa della politica, che fa sempre da freno all’innovazione nel nostro Paese. 

Nel frattempo gli allevatori ci rimettono, e sapete chi ci guadagna? Solo l’industria del seme estera: americana, scandinava e tedesca… 

ps. Il titolo del mio commento non è una domanda retorica, mi piacerebbe davvero sapere gli allevatori di che avrebbero bisogno!