A tre settimane dall’insediamento del nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca, il mondo di interroga sulle conseguenze che il neoprotezionismo Usa porterà all’economia mondiale. Sono pochi gli esperti di mercati e finanza a prevedere scenari rosei: le previsioni spaziano tra chi prospetta conseguenze critiche per larga parte dell’economia mondiale (Stati Uniti inclusi) e chi annuncia persino ripercussioni sulle relazioni politiche tra gli Usa e diversi Paesi, in Europa e in Estremo Oriente. Tensioni che andandosi ad aggiungere a situazioni di per sé già calde, rischierebbero di portare con sé un bel nulla di buono. Anzi.
Tra i tanti intervenuti sulla questione, nel nostro Paese, chi ha parlato di vero e proprio “rischio per il made in Italy” è stato, a fine gennaio in Commissione Attività Produttive alla Camera dei Deputati, il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Fatte salve poche e marginali sfumature tra i vari opinionisti, e per quanto si prevede che Trump non riuscirà a mantenere tutti gli impegni presi in campagna elettorale, le prospettive appaiono tutt’altro che rosee, con ripercussioni che sul mercato interno andranno verosimilmente a colpire, oltre alle classi più povere, una buona parte della classe media che – si dice – lo avrebbe largamente sostenuto.
Se da una parte Trump risponde alle contestazioni di piazza e alle invettive lanciate dai media con spirito di crescente insofferenza e con frasi che appaiono preconfezionate (“non capisco cosa abbiano da protestare; non hanno votato anche loro?”), dall’altra proprio non si cura dei mille dubbi che ogni giorno assalgono una categoria, o un comparto produttivo, piuttosto che l’altro.
Il mondo del latte e del formaggio, come quello delle auto, dei vini, dei generi di lusso, e mill’altri ancora, si interroga sugli scenari possibili, e interrogandosi cerca di capire cosa riserverà il futuro agli operatori, dentro e fuori dal mercato Usa. Anche qua – sarà che di ottimisti non se ne trovano molti – ma la sensazione è che il tempo porterà poco di buono. O forse niente.
Ad immaginarlo sono le aziende agricole, gli allevatori, i produttori di formaggi a latte crudo, a cui la costruzione del muro al confine con il Messico evoca il crollo dell’offerta della mano d’opera su cui sinora si è retto il mercato agricolo, e i conseguenti maggiori costi che ne deriveranno, che a loro volta si ripercuoteranno sui conti della materia prima e dei prodotti trasformati. Una prospettiva assai ingarbugliata però, che probabilmente vedrà confluire un numero contingentato di lavoratori regolari, negli Stati a maggiore vocazione agricola, senza la possibilità di sopperire ad una domanda che non sarà più soddisfatta, vista la scarsissima propensione degli americani – anche i disoccupati – nei confronti dei lavori agricoli.
A raccontare con profonda lucidità questo surreale scenario sono diversi contributi che ci giungono dagli Usa in questi giorni, e tra cui emerge un articolo di Reynard Loki apparso sabato scorso su “Alternet.org” e intitolato “How Trump’s Immigration Policies Could Nearly Double the Price of Milk“, vale a dire “Come le Politiche di Immigrazione di Trump potrebbero quasi far raddoppiare il prezzo del latte”.
L’altra faccia della medaglia appare legata alla levata di scudi contro novanta prodotti dell’eccellenza europea – in larga parte agroalimentari – contro i quali mercoledì prossimo verrà votata la risoluzione che dovrebbe ratificare un nuovo dazio doganale del 100%.
L’iniziativa sembra strettamente connessa alle dispute instaurate oltre venti anni fa, quando l’UE si rifiutò di accettare il manzo statunitense, notoriamente gonfiato a suon di ormoni. Si dice che alcune tra le più potenti lobby agricole degli Stati Uniti starebbero operando pressioni sull’amministrazione Trump per colpire duramente l’UE, e se sfida dev’essere, con l’Europa, la miccia ideale per innescare la deflagrazione sembrerebbe essere proprio questa.
L’apprensione è palpabile soprattutto in tre Paesi del vecchio Continente: Francia, Germania e Italia, che verranno colpiti in alcune delle produzioni di maggior prestigio: dalle motociclette al cioccolato, dalle verdure ai formaggi, per l’appunto. E pensare che non più tardi di tre mesi fa il direttore di un consorzio di tutela inviò una forma di formaggio con l’implicito messaggio di adoperarsi per la riapertura del mercato russo. La risposta non si è fatta attendere più di tanto, con la seria prospettiva della chiusura di quello a stelle e strisce.
13 febbraio 2017