I produttori statunitensi di formaggi di "ispirazione" europea (i vari Gorgonzola, Asiago, Feta, etc. "made in Usa"), preoccupati dalla prospettiva di dover cambiare nome ai propri formaggi, hanno richiesto e ottenuto la settimana scorsa l'appoggio del proprio mondo politico. I primi a muoversi sono stati quelli del Connecticut, che attraverso una delegazione del proprio Congresso hanno indirizzato nei giorni scorsi una formale richiesta al Segretario dell'Agricoltura degli Stati Uniti Thomas J. Vislack e al funzionario della Casa Bianca Michael Froman.
La richiesta è quella di sostenere i propri produttori in quello che localmente viene visto come un diritto: produrre formaggi con denominazioni già utilizzate in Francia, Italia, Grecia, etc., come se l'abuso di tali denominazioni non fosse durato già abbastanza e non avesse arrecato danni milionari ai produttori europei. In sostanza, quel che pare poco chiaro ai produttori Usa e ai loro politici è che un nome non possa essere patrimonio universale ma di determinati produttori e aree geografiche.
La sensazione, è evidente, è che gli interessati, fingendo di non capire dove sia l'arcano ed essendosi abituati a farla franca per decenni, si appellino ora alla potenza diplomatica che gli Stati Uniti esercitano sugli Stati europei. O per meglio dire: non sui singoli Stati bensì sull'intera Unione Europea, sapendo quanto poco unita, di fatto, essa sia.
Il timore dichiarato è che nelle prossime sedute del Ttip (Trattato Transatlantico su Commercio e Investimenti) possano essere affermati i diritti dei produttori europei, che quelle denominazioni hanno creato e utilizzano da ben più lungo tempo. Ma che per gli americani – questa la tesi sostenuta – sarebbero ormai nomi di uso comune.
In aggiunta alle già inconsistenti argomentazioni, i produttori statunitensi aggiungono che "i formaggi da noi realizzati sono altrettanto buoni come quelli fatti in Europa, e in molti casi sono anche migliori". I politici dal canto loro presentano il conto: l'applicazione di restrizioni nelle denominazione potrebbe costare all'industria casearia degli Stati Uniti sino a 4,2 miliardi di dollari Usa.
Nel sostenere le tesi dei propri produttori, i politici del Connecticut sono arrivati ad affermare che "l'ingiusta limitazione per le etichette di formaggi come l'Asiago solo perché non è fatto in Italia, ad Asiago, non ha senso" e che "la produzione locale di formaggi, latticini e altri simili prodotti in Usa è molto richiesta, e i negoziati commerciali internazionali non dovrebbero rappresentare una ragione per cui, tutto ad un tratto, gli agricoltori del Connecticut non possano più vendere alcuni prodotti, peraltro popolari e conosciuti".
15 febbraio 2016