TGCal24: qualità del latte mal raccontata. Quella dell’informazione azzerata

Uno dei molti pascoli alle pendici del Monte Poro, qui pascolato da pecore – foto Cala La Volpe©

Non dev’essere facile entrare nel merito di questioni (zoo)tecniche se di tecnica si sa poco o nulla. È quello che si finisce per pensare dopo aver assistito ai due servizi andati in onda pochi giorni fa sulle frequenze dell’emittente televisiva calabrese TGCal24,  poi rilanciati dal sito web della stessa testata. Servizi intitolati “La qualità del latte? Dipende da cibo, acqua e condizioni di vita delle mucche“ e “Il latte del Monte Poro, un prodotto di alta qualità ma pagato troppo poco”.

In entrambi i reportage l’intervistatrice Antonella Iacobino incontra un allevatore di Spilinga, che dapprima si esprime sul prezzo del latte alla stalla, affermando che «è un prezzo molto basso: sui 40-45 centesimi di euro al litro». Un prezzo con cui «non riusciamo a competere alla pari con altri Paesi», dice l’allevatore, che poi sciorina le “sue” ragioni, in una sorta di scaricabarile in cui le responsabilità son tutte degli altri. Meno che mai intervistatrice e intervistato provano a ragionare sull’ipotesi che l’azienda possa compiere l’intero ciclo produttivo, includendo in esso la trasformazione e la vendita (beninteso: non che sia semplice!, ndr), liberandosi dall’assoggettamento alle logiche industriali.

Il servizio si conclude sulle non poche difficoltà a cui i produttori debbono sottostare: a cominciare da «tutta una serie di normative molto rigide da rispettare in tema di benessere animale e regole igienico-sanitarie». «Normative che», continua l’intervistato, «sicuramente garantiscono una qualità maggiore del prodotto, ma d’altra parte incidono sui costi di produzione, mentre talvolta gli acquirenti e i produttori di formaggi preferiscono affidarsi a materie prime dal costo più basso» (che non siano forse clienti inadeguati?, ndr).

Ma quel che più sorprende è quanto affermato nell’altro servizio, in cui all’assunto un po’ scontato e un po’ retorico secondo cui “meglio sono trattate le mucche, più buono è il latte che producono” seguono affermazioni condivisibilissime: “importantissimo avere allevamenti sempre in buone condizioni, mucche libere di muoversi, di mangiare, di dormire, di uscire quando vogliono” (ma uscire dove? forse su un ristretto spazio in cemento come quello che si vede nelle immagini? o su un vasto prato, come degli erbivori meriterebbero di avere?).

È quando si parla di alimentazione animale che i continon quadrano, purtroppo, visto che la “miscelata” di cui l’allevatore parla, per quanto venga “fatta ogni mattina” è “composta da sfarinati (mangime, mais, orzo e grano di nostra produzione), fieno di nostra produzione tra cui non può mancare l’erba medica (che è alimento essenziale per le mucche), e l’insilato di mais e loietto”. Ecco, proprio l’insilato di mais che quanti vogliono fare qualità reale dovrebbero fuggire come il demonio, l’insilato è lì, ancora una volta impropriamente accostato al concetto di qualità, in un gioco perverso in cui il consumatore è continuamente fuorviato dal capire. Come se non bastassero gli spot pubblicitari a confondergli le idee, adesso ci si mettono anche le redazioni dei telegiornali, come se le “verità” di un intervistato potessero così impunemente essere legittimate.

Se è vero com’è vero che il territorio del Monte Poro è adatto ad un’alimentazione verde invidiabile (il sito web della Fondazione Slow Food per la Biodiversità lo descrive come “un’area ricca di pascoli caratterizzati da una grande biodiversità di erbe”, ndr) sarà forse bene che alcuni allevatori ripensino l’organizzazione delle proprie aziende, evitando una “padanizzazione” che in presenza di buoni erbai andrebbe fuggita anziché abbracciata. Soprattutto se si decide di parlare con i giornalisti di benessere animale e di qualità reale del prodotto.

24 febbraio 2020