La prima volta che sentimmo parlare di lei eravamo in un buon ristorante all'Esquilino, con una compagnia difficile da avere a Roma: quella di tre margari dell'Alta Valle Grana. Tre margari vestiti a festa. Mani callose e viso riarso dal sole, scesi nella capitale per una sorta di udienza. Non a San Pietro, dal Papa, beninteso, bensì a via Venti Settembre. Un appuntamento di quelli che non capitano spesso: «al ministero», ci confessò uno di loro, «con la dottoressa La Torre».
Sarà stato il 2006, ma l'anno conta poco. Quel che più importa – e che ci impressionò – fu il loro atteggiamento: tutti e tre come con il cappello in mano, andavano a spiegare qualcosa. Ma soprattutto a chiedere, sperando. Chiedere di poter intravedere una prospettiva, chiedere lumi sulla soluzione delle eterne diatribe di una valle e di un formaggio, il Castelmagno Dop, che di pace ne ha avuta poca, negli anni. Un formaggio che già allora non era più quello dei Bocca, dei Veronelli, dei Soldati, i tre scrittori che tanto l'hanno decantato in anni largamente antecedenti al boom indotto dalla televisione.
Passano tre anni, poco più o poco meno – l'anno anche stavolta è ininfluente – e l'amico Paolo Ciapparelli, Ribelle del Bitto per antonomasia, reduce lui da un incontro ai piani alti dello stesso ente, ci riferisce la sua insolita esperienza. Erano i tempi roventi delle multe a orologeria per i caricatori d'alpe della Valgerola, e qualche motivo di apprensione (non ne sono di certo mancati) andava di tanto in tanto confutato, a Roma o Milano, con i vari referenti che il Palazzo propone in questa bella Italia che – a modo suo – valorizza il "made in Italy" che "conta".
Reduce dall'incontro, ci si para davanti un Ciapparelli con un ghigno strano, un ghigno sardonico. E ci fa: «Mi ha chiesto quanto Bitto produrremo quest'inverno (per chi non lo sapesse, è un formaggio d'alpeggio, quindi estivo, ndr), e io mi son detto "vai, siamo in buone mani!». Poi uno pensa davvero che se è questa la nostra classe politica e amministrativa – vale a dire chi è stato messo a governare il nostro mondo agricolo – di speranze non ce ne possano essere poi tante. A meno che non si stia dalla parte della barricata in cui più che la sostanza contano le amicizie, il potere. E i soldi.
E venendo dallo ieri all'oggi, quel che sorprende – leggendo di illeciti in campo agroalimentare – è che certi personaggi, forse in preda ad un delirio di onnipotenza, nel loro straparlare – finalmente! – prima o poi, da soli o con qualche complicità, si mettono nei guai, e a un tratto, ti appaiono così anche più umani.
È successo di recente, e lo si è appreso lunedì scorso dal sito web "Test Magazine" del Salvagente (ottimo sito, dalla parte dei consumatori), che la Mozzarella di Bufala Dop sia nuovamente caduta al centro di un illecito dall'aspetto e dalle dimensioni sconcertanti. Un illecito che purtroppo non ha suscitato gli interessi della cosiddetta grande stampa (spesso distratta, poverina!) e che di conseguenza non è arrivato alle orecchie della massa dei consumatori. Occhio non vede, cuore non duole, come si dice, ma a ben sentire le intercettazioni, qualcosa di rilevante c'è stato in quanto detto dalla dirigente del Mipaaf a suoi interlocutori confidenti. Qualcosa che la porrà sul banco degli imputati in un'inchiesta che ormai sembra avere pochi lati oscuri da svelare.
Venendo ai fatti, ampiamente riportati nell'articolo di Test Magazine, intitolato "Mozzarella di bufala nel caos, controlli concordati e false certificazioni", è accaduto che, al telefono con due dirigenti dell'ente di controllo Csqa, la La Torre abbia tra l'altro sentenziato: «Questi della mozzarella devono morire!». Per quanto l'espressione non abbia la valenza che avrebbe se a proferirla fosse stato un killer di professione, l'affermazione ha il peso dei macigni, soprattutto nel contesto di un dialogo che in cui si trattava di un altro ente di controllo – il Dqa – che sarebbe potuto subentrare proprio in vece del Csqa.
Ancora una volta trame di Palazzo, ancora una volta illeciti diffusi e abituali, sullo sfondo dei quali si stagliano sempre la salute pubblica, la tutela dei consumatori, e la logica della sopraffazione. Gli interessi (sporchi) di pochi prendono il posto del bene collettivo. La vicenda lascia emergere un sistema in cui i controlli alle realtà produttive, siano state esse allevamenti o caseifici, erano sistematicamente pilotati: le ispezioni concordate preventivamente, le date taroccate, alla bisogna, tanto da far risultare tutto in ordine. Anche se il latte non sempre proveniva dall'areale della Dop, o se qualche valore era fuori controllo.
"Il tutto", spiega bene l'articolo di Test Magazine, è stato "reso possibile dal conflitto di interesse che legava in modo incestuoso i controllati – i caseifici e gli allevatori della filiera della mozzarella di bufala campana Dop – ai controllori, l’ente di certificazione Csqa". Un conflitto d'interessi che, stando a quanto accertato dagli inquirenti della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ha visto alcuni dirigenti dell’Icqrf (Ispettorato Repressione e Frodi, per la tutela del consumatore) e del Mipaaf "giocare la partita in una parte precisa del campo": al fianco degli interessi di comodo e non di quelli dei consumatori.
E così, oltre al fenomeno del latte di bufale affette da brucellosi, oltre alle vaccinazioni illegali effettuate per coprire la malattia (ne parlammo qui e qui, nel 2013), emerge un vero e proprio sistema di protezione dell'illecito che coinvolgeva – spiega l'articolo di Test Magazine – "allevatori, proprietari di caseifici, tra i quali Paolo Marrandino, alti dirigenti della Csqa (l’amministratore delegato Pietro Bonato e il direttore commerciale Michele Zema) e dipendenti del ministero delle Politiche agricole, tra i quali spicca Laura Marisa La Torre, all’epoca dei fatti – tra marzo 2012 e il 2013 – direttore generale all’Icqrf".
Sullo sfondo del malaffare emerge la contesa del ruolo di ente controllore, contesa che l'articolo definisce una vera e propria "guerra per accaparrarsi i controlli". Una posizione assai delicata e cruciale in cui – ed è da anni che se ne parla tra addetti ai lavori – il controllato paga il controllore per farsi certificare. I cavilli, le relazioni anomale, le posizioni a dir poco scomode si intrecciano in un quadro degno di un vero e proprio giallo. Ancora una volta l'aspettativa dei consumatori è che si faccia chiarezza, e che al più presto si ripristini la legalità. Anche se ormai, dopo aver letto e per troppe volte di vicende indecenti, molti – e tra quelli noi – cominciamo a credere che il detto popolare sia più che fondato: "il lupo perde il pelo ma non il vizio"; speriamo di sbagliare, ma mai come oggi viviamo la vicenda con tanto tanto scetticismo. Scoprire che l'illecito giungeva sin dentro il Palazzo lascia sconcertati.
L'articolo, molto dettagliato ed esaustivo, è raggiungibile cliccando qui. Dedicato e destinato a quanti, pur stanchi di leggere di queste vicende, vogliano ancora una volta, giustamente, sapere.
16 maggio 2016