Apre ai mangimi il consorzio del Castelmagno Dop

22 settembre 2009 – Parlano di formaggi tipici ma se ne fregano alla grande del legame col territorio. È questa la triste considerazione che rimane da fare ora che il consorzio di tutela (ma tutela di cosa, e di chi?) del Castelmagno ha deciso di aprire ai mangimi.

Una volta il Castelmagno si produceva solo nelle frazioni dell’omonimo paese della Valle Grana, attorno ai 1500 metri di altitudine e più su, nei pascoli estivi oltre quota 2000. Era il Castelmagno decantato negli anni Settanta da gente come Mario Soldati, Giorgio Bocca e Luigi Veronelli. Ovvio che d’inverno il formaggio non sia mai stato all’altezza di quello estivo, quando le bovine sono libere di nutrirsi nei pascoli alpini. Nella stagione fredda l’alimentazione era rappresentata da fieno locale, che veniva mietuto laddove le vacche non potevano brucare erba (sui pendii, anche i più impervi), e al più da qualche integrazione di cereali. Ma di Castelmagno se ne faceva poco, giusto per autoconsumo e per un minimo di vendita ai pochi forestieri di passaggio.

L’avvento del Consorzio, l’espansione della zona di produzione ad aree che mai prima di allora avevano prodotto quel formaggio, l’arrivo poi di personaggi estranei a quella realtà produttiva, l’idea maldestra di portare alcuni allevatori a conferire latte ad un’unica unità produttiva (mortificando il lavoro di ciascuno in un unicum che ha meritato poi il titolo di “Castelgesso”, ndr), il desiderio di trarre redditi sempre maggiori aumentando le rese (introduzione di bovine più produttive delle originarie Piemontesi, ndr) e la produzione casearia (forme più grandi di quelle d’un tempo e talvolta – si dice – latte in più in caseificio rispetto a quello che i capi in stalla riescono a produrre, ndr) ha portato uno dei prodotti caseari più importanti d’Italia a discostarsi, passo dopo passo, dalle sue origini sino a rassomigliare sempre meno a quel che dovrebbe essere.

La penultima tappa di questa incresciosa vicenda aveva visto il consorzio fissare al 10% il limite minimo di alimentazione locale per la versione “prodotto della montagna” di questo formaggio, vale a dire quella non prodotta in alpeggio. Una quota tanto irrisoria da non riuscire a garantire un vero legame con il territorio d’origine e che aveva aumentato la forbice qualitativa tra la tipologia invernale e quella “d’alpeggio”.

Chi pensava che il fondo fosse stato raggiunto si dovrà ora ricredere: il consorzio ha presentato l’ennesima richiesta di modifica del disciplinare, puntando a ufficializzare l’uso di un 50% di mangime per il Castelmagno “prodotto della montagna”. Il Mipaaf, come al solito non dice di no, lasciando che sia Bruxelles a decidere, e per Bruxelles l’atteggiamento del nostro ministero equivale ad un implicito consenso in favore dell’ennesima “svolta”.

Nell’attesa che la Commissione Europea autorizzi anche questa, il malumore dei produttori più fedeli alle “origini” è palpabile. I piccoli giocano il loro ruolo passivo in balìa degli eventi, e subiscono ciò che politica e faccendieri decidono sulla loro testa. Gli unici che potrebbero fare qualcosa per salvare i propri interessi sono gli avveduti “forestieri” che hanno messo piede da non molto nella realtà più autentica (rispettandola però solo in parte, ndr) e che sono avvezzi a usar penna e a muovere i propri legali. Cosa saranno in grado di fare lo vedremo nei prossimi mesi, e nell’attesa degli eventi, ci viene in mente un detto antico di quelle parti, secondo cui gli avvocati di Cuneo si sarebbero fatti ricchi proprio grazie alle dispute della Valle Grana.

Mentre tutto ciò accade, una famosa firma del cacio, non più in buone acque, avrebbe deciso di investire in questo luogo di tante faide e poca lungimiranza, acquistando una cantina di stagionatura per affiancare poi nei banchi della Gdo la propria griffe al nome del Castelmagno. Dopo che una famosa firma del vino, mesi fa, aveva tentato, non riuscendoci per un’inezia, di accaparrarsi l’ultimo alpeggio in vendita.

Castelmagno si svuota sempre più dei propri valori originari rimanendo leggenda. Roba non adatta alla stagionatura ma tanto utile per vendere. E quando il marketing avanza è tempo che i veri appassionati facciano un passo indietro. O anche due.