Prima della fine dell'anno potrebbe stringersi la morsa dell'Fda attorno alla commercializzazione di latte crudo e dei suoi derivati. Mancano ventidue giorni al 3 novembre, data ultima per partecipare alla consultazione pubblica voluta proprio dalla Food and Drug Administration e destinata a rivedere la già rigida legislazione relativa ai formaggi a latte crudo. A ben guardare questa iniziativa è stata preparata con la più meticolosa delle attenzioni, attraverso una campagna di sensibilizzazione che nel corso del 2015 si è fatta via via più incalzante (e caratterizzata dallo scivolone sulle assi di legno, leggi qui), ed è culminata con la realizzazione di una pagina web creata ad hoc.
Una pagina web capace di spostare gli equilibri degli incerti, e di minare le certezze di molti, anche attraverso affermazioni più che discutibili (p.e.: "Pasteurization does save lives", "La pastorizzazione salva delle vite umane"). Una campagna così fondata sul sospetto da non sembrare neanche di matrice governativa, oltre la quale si staglia, a detta di molti, la pressante presenza delle lobby industriali, costrette a lavorare latte pastorizzato, tanto sono lontane dal mondo produttivo reale: tempi di lavorazione post mungitura assai elevati, latte non sempre a postissimo per ciò che concerne carica batterica e cellule somatiche. Per non parlare poi dei limiti igienici di molti caseifici, con molti casi di listeria che colpiscono anche i formaggi fatti con latte pastorizzato (come nel caso da noi riferito all'inizio dell'anno: leggi qui).
A guardar bene ci sarebbe da scavare in altra direzione: non tanto nelle piccole fattorie in cui gli animali sono allevati – come di norma accade dove non si pastorizza – nel rispetto del benessere animale bensì nelle stalle intensive che di tanto in tanto compaiono nelle denunce dei gruppi animalisti per i frequenti soprusi inferti alle vacche.
Su questo e su molto altro i piccoli produttori si chiedono: "Perché non si regolamenta l'industria lattiero-casearia, al fine di garantire la qualità del latte, affermando pratiche più rigorose nella produzione del formaggio, piuttosto che imporre restrizioni sul latte crudo, che gli esseri umani consumano da millenni?" Ovvio che poi c'è sempre il rovescio della medaglia, e come ben ci disse un allevatore amico che sa cosa esce dalle mammelle delle proprie vacche: "Io consumo il latte crudo e lo faccio bere ai miei figli, ma mai berrei il latte di un collega". Vale a dire "i rischi sono molti, ma se sai come lavori lungo tutta la filiera, allora più permetterti di berne tranquillamente quanto ne vuoi, senza il benché minimo timore".
Sull'altra sponda dell'Atlantico è il britannico The Telegraph a controbattere punto per punto alle poco solide obiezioni degli statunitensi, attraverso un bell'articolo intitolato "Raw milk revolution: it's tastier – but is unpasteurised dairy safe?" Il pezzo, pubblicato martedì 7 ottobre scorso, è firmato da Josh Barrie e va a toccare molte questioni di inattaccabile buonsenso, ricordandoci poi che è dal 2002 che nel Regno Unito – a dispetto dei dieci milioni di litri di latte crudo commercializzati – non si sono più verificate emergenze sanitarie riconducibili ad esso.
L'articolo si snoda tra le testimonianze di molti allevatori, che toccano varie tematiche tutt'altro che secondarie: dai benefici per la salute in genere, alla maggiore digeribilità, ai vantaggi per i sofferenti di asma e di eczema. Per proseguire poi con le intolleranze al lattosio, provocate – a detta di alcuni – dal consumo di latte pastorizzato. Infine, secondo altri, anche nel Regno Unito l'industria del latte pastorizzato ha fatto pressioni (sulla Food Standards Agency) per contrastare la diffusione del latte non trattato teoricamente. Tutto il mondo è paese, in sostanza. Ma il sospetto è che il Regno Unito – in sostanza – lo sia molto meno degli Usa.
12 ottobre 2015