C'è un'associazione – in Italia e nel mondo – la Ciwf (Compassion in World Farming), che ha un non so che di doppio. Da una parte il suo fare ci piace sino ad attrarci e da un'altra periodicamente riesce a deluderci. Per non dire di peggio. Nata in Inghilterra nel 1967, con la missione di difendere gli animali da reddito dallo sfruttamento industriale, promuovendo e sostenendo metodiche di allevamento etiche ed ecologicamente sostenibili, Ciwf conduce battaglie sacrosante, in difesa di esseri viventi che nascono con la destinazione di produrre cibo per le nostre tavole.
Nel loro fare le petizioni si alternano alle battaglie legali, e le pubbliche denunce puntano a sensibilizzare i consumatori. Il tutto nel solco di un lavoro assiduo e incessante, in continua espansione nel mondo. Un lavoro che si infrange però una volta all'anno nella distribuzione del Premio Benessere Animale ad aziende che col vero benessere animale non hanno molto a che fare. Aziende in cui etica e ambiente, per quanto sbandierati, sono valori sempre subalterni ai fatturati, ai ricavi, ai costi, alla conquista di fette di mercato.
Le industrie buone
È così che, anno dopo anno, Ciwf da una parte premia i big – che gongolano – e dall'altra vede calare il consenso dei propri fan, sempre più attoniti davanti ad una lista di premiati che cresce sì in lunghezza, ma mai – o quasi mai – in qualità. E in cui a spiccare sono nomi come Amadori, Barilla, Burger King, Cremonini, Coca Cola, Coop Italia, Ferrero, McDonald's, Unilever. Mai e poi mai una piccola o media azienda che passi dalla zootecnia intensiva a quella estensiva.
E così, i premi ottenuti grazie ad operazioni di poca sostanza, come quella di sostituire le uova da galline in gabbia con quelle da galline non-in-gabbia, prendono posto nelle bacheche dei palmares di cui ogni grande azienda pare non possa fare più a meno. Operazioni che nel complesso risultano poco credibili, significando né un grande sforzo per l'azienda né un grande progresso per il consumatore. ma che proprio al consumatore saranno raccontate sulle confezioni dei prodotti con diciture spesso fuorvianti ("con uova di galline allevate a terra"), che poco vogliono dire e molto vogliono far credere.
Detto ciò, e in attesa che il Premio Benessere Animale 2017 ci faccia conoscere (in estate) i nomi dei "fortunati" vincitori, Ciwf torna a meritare il nostro plauso per l'ennesima denuncia contro gli allevamenti intensivi, e a riproporre una questione che guarda oltre la dignità degli animali allevati, toccando la salute pubblica, e il rischio di pandemie a cui gli allevamenti industriali ci espongono sempre più.
Le industrie cattive
Complice il riaccendersi di focolai di aviaria, in Italia (leggi qui e qui) e non solo, l'associazione torna a puntare il dito verso gli allevamenti industriali più intensivi, chiedendo che si torni ad intervenire ora, subito e radicalmente, sui fattori di rischio che ci pongono di nuovo nella prospettiva di una nuova possibile pandemia.
Il problema riguarda l'origine dei ceppi ad alta patogenicità di aviaria e il ruolo che gli allevamenti intensivi hanno nella loro diffusione. L'obiettivo più urgente è quello di evitare che la situazione, ancora sotto controllo, sfugga di mano com'è accaduto in passato. In una dichiarazione rilasciata alle agenzie di stampa, la direttrice di Ciwf Italia, Annamaria Pisapia, ha sottolineato che «se non ci chiediamo con urgenza come e dove questi ceppi hanno origine, saremo condannati a ripetuti, devastanti focolai di influenza aviaria negli anni a venire. Inoltre», ha aggiunto la Pisapia, «molti degli abbattimenti di massa sono inumani, eseguiti con la CO2 direttamente negli allevamenti».
Sulla recrudescenza dell'aviaria in Europa, i nuovi casi sono stati registrati in ben 26 Stati, con 1094 focolai distribuiti prevalentemente tra allevamenti intensivi (479 casi; 43,8% del totale) e fauna selvatica (479 casi; 43,8% del totale) e marginalmente tra allevamenti rurali (111 casi; 10,1%), uccelli in cattività (15 casi; 1,4%) e altri ambiti non accertati (10 casi; 0,9%). Otto invece i focolai sul territorio nazionale (quattro negli allevamenti intensivi e quattro tra la popolazione selvatica) con un totale di 140mila animali soppressi.
Le problematiche riguardanti gli allevamenti industriali sono evidentemente ben presenti nell'agenda degli organi di controllo, che in varie parti d'Italia – e in specie nel Triveneto – stanno operando azioni di controllo nell’ambito del monitoraggio disposto dal Comando per la tutela della salute dei Nas, volto a salvaguardare il «benessere degli animali da reddito».
I controlli, operati a tappeto, riguardano non solo gli allevamenti di volatili e proseguono anche in quelli di bovini, ovicaprini, suini e pesci.
13 febbraio 2017