20 aprile 2008 – Le stalle sempre più grandi, l’automazione e la meccanizzazione spinta di tutte le operazioni di (alimentazione, mungitura, pulizie) vanno d’accordo con la qualità del latte? Secondo l’ideologia agroindustriale “grande è pulito”, ma è così? In realtà il gigantismo zootecnico è alla base di problemi di contaminazione microbiologica del latte che pregiudicano gravemente la qualità del formaggio.
Tra i peggiori microbi anticaseari vi sono i clostridi, causa del “gonfiore tardivo”, un difetto del formaggio che consiste nella presenza di occhiature, fessurazioni, caverne, consistenza spugnosa della pasta, oltre ad eventuali sapori ed odori sgradevoli. Questo grave problema si verifica dopo qualche settimana/mese di stagionatura e assilla vari tipi di formaggi a pasta dura o semi-dura.
Il guaio è che la presenza di clostridi nel latte rappresenta un fenomeno in crescita. Nei campioni di latte controllati dall’Associazione Provinciale Allevatori (Apa) di Parma la percentuale di positività ai clostridi è salita dal 9,0% ad oltre il 30% tra il 1991 e il 2003. In Lombardia i dati più recenti (2006) indicano un chiaro peggioramento della situazione.
I clostridi sono batteri che si sviluppano in condizioni di anaerobiosi (assenza di aria) e che formano una capsula protettiva in grado di consentirne la sopravvivenza nel terreno per anni. Sono resistenti alle temperature elevate (e quindi alla pastorizzazione) e ai comuni disinfettanti.
La principale causa della presenza di clostridi nel latte è rappresentata dall’alimentazione con insilati (foraggi conservati in assenza di aria); mentre con l’alimentazione tradizionale (a base di erba o fieno) si trovano meno di 200 spore di clostridi per litro, con quella a base di insilati se ne possono trovare più di 2000.
Gli allevatori lo sanno, ma siccome gli insilati abbattono i costi della “razione”, il loro uso continua ad aumentare. L’unifeed è l’altro “imputato”. La tecnica dell’unifeed ovvero del “piatto unico”, mediante la quale si somministrano – in un’unica “passata” – tutti i componenti della dieta è stata adottata per guadagnare tempo nella distribuzione degli alimenti. Si utilizzano enormi carri miscelatori da 20 metri cubi di capacità che “estraggono” l’insilato dai silo, “trinciano” i foraggi “lunghi”, li mescolano a mangimi ed altre materie prime (anche liquide) o acqua. Il foraggio così trattato è consumato senza lasciare “avanzi”. In più, somministrando insieme mangimi e foraggi, si possono far ingerire quantitativi più elevati di mangime rispetto a quanto possibile offrendolo da solo. Quanti vantaggi!
Peccato che con questo sistema la polvere e la terra che contaminano i foraggi finiscano nella miscelata e che la presenza di acqua, amidi e zuccheri favorisca lo sviluppo dei clostridi. Le mucche ingeriscono le spore e le “restituiscono” nelle feci; con il liquame, sparso copiosamente sui terreni, esse tornano al terreno … e il ciclo ricomincia.
Veniamo al latte. La sua contaminazione avviene principalmente attraverso le feci e le mammelle sporche. I moderni sistemi di stabulazione “libera” sono spesso caratterizzati da aree di “esercizio” molto sporche, dove le mucche si imbrattano di deiezioni; ammassate nelle sale di mungitura esse si sporcano ulteriormente.
Stalle e impianti sottodimensionati rispetto al numero di mucche presenti, la contrazione della manodopera e l’inevitabile aumento dei problemi gestionali contribuiscono a peggiorare la situazione. Non si puliscono abbastanza le aree di riposo, le attrezzature a contatto con gli animali, le mangiatoie e non c’è sempre il tempo per pulire adeguatamente capezzoli e mammelle. L’uso massiccio di disinfettanti non risolve il problema, semmai lo aggrava perché riduce la flora microbica “buona”, in grado di contrastare i clostridi.
In caseificio, a parte l’attenzione a tutti quei dettagli che consentono di ottenere cagliate di buona qualità – con perdita di acqua uniforme, buona compattezza e capacità di assorbire uniformemente il sale – non ci sono molti rimedi. Quello più utilizzato è l’aggiunta al latte del Lisozima (un antibatterico “naturale”); in alternativa si possono eliminare le cellule batteriche mediante battofugazione (utilizzo della forza centrifuga) o l’ultrafiltrazione. Vi è poi la possibilità di utilizzare innesti “selezionati” con batteri lattici in grado di moltiplicarsi nel latte e “competere” con i clostridi.
Si tratta di soluzioni non sempre compatibili con le lavorazioni “tipiche” e che, da sole, non bastano a contrastare un problema che – legato com’è ad un allevamento sempre più industriale – tende ad aggravarsi ulteriormente.
di Michele Corti
docente di Sistemi Zootecnici all’Università degli Studi di Milano