La lobby delle super-vacche è contro Carlin

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20 aprile 2008 – Strali infuocati per il presidente di Slow Food Carlin Petrini. A lanciarli è stato l“L’Allevatore Magazine”, quindicinale dell’Associazione Italiana Allevatori (l’Aia, che gestisce per conto del Governo il “miglioramento genetico” degli animali).

In un editoriale a dir poco irritato, il giornale ha replicato ad un articolo pubblicato sul“La Repubblica” alcune settimane prima. Un pezzo in cui il leader di Slow Food sosteneva che il latte delle mucche high-tech “non ha più gusto” per l’eccessiva “spinta” verso produzioni sempre più elevate, ottenute tramite quel “miglioramento genetico” che ha trasformato la mucca in un’abnorme macchina da latte.

Petrini non è certo il primo a sollevare questi problemi, ma visto il calibro del personaggio e la potenza mediatica del quotidiano, si capisce quanto quelle esternazioni abbiano dato fastidio.

La cosa che più salta agli occhi nel pezzo dell’Allevatore Magazine è che Petrini venga trattato con la sufficienza che si riserva a un “intruso” che abbia messo il naso in questioni tecniche da lasciare ai “competenti”. “Competenti” non abituati a subire critiche, soprattutto quando queste sono sacrosante.

Il “Petrini pensiero” in materia zootecnica è largamente noto e condivisibile, muovendo contro “i miglioratori delle razze che hanno portato le vacche a fare oltre 50 litri al giorno” e sostenendo che la cosiddetta “alta qualità” commerciale sia un “trucco”, dato che quella vera sia fatta di molti e imprescindibili parametri, in parte estranei alla zootecnia intensiva.

Un’“eresia” intollerabile per i forti interessi degli allevatori, che mette in discussione il riduttivismo tecno-scientifico e i fondamenti stessi su cui poggia il sistema industriale. Una reazione tanto ruvida, nei confronti di un personaggio che rappresenta un’icona dell’Italia contemporanea e “illuminata”, suona strana in tempi di buonismo coatto.

Sottolineando la dimensione politica del cibo e i rischi della sua eccessiva industrializzazione, Petrini non si limita a teorizzare, avendo dato un contributo fondamentale alla creazione di un movimento che mette in discussione il monopolio dell’Agrifood System. Dire che il modo in cui sono mantenuti e selezionati gli animali d’allevamento (che forniscono il cibo che finisce nel nostro piatto) non va lasciato ai soli “addetti ai lavori” è tanto sacrosanto quanto fastidioso per chi vorrebbe mantenere il comando del vapore.

Il dito di Petrini nella piaga del “miglioramento genetico” che ha trasformato la mucca in una macchina del latte dà fastidio. Le sue osservazioni portano a riflettere sul limite oltre il quale spingere le “selezioni” che mirano unicamente e senza freno all’aumento delle produzioni di latte.

Le super-mucche già oggi sono incapaci di riprodursi naturalmente, dato che nella loro “carriera” spesso non riescono a partorire nemmeno due volte (e quindi a produrre una figlia di rimpiazzo). Lo dimostra il fatto che l’ultimo grido in fatto di high-tech zootecnica consista nel fecondarle con seme di toro “sessato” al femminile, in modo da far nascere solo vitelle. È eticamente accettabile una simile manipolazione in nome del profitto?

Il contribuente già tartassato dovrebbe cominciare a chiedersi perché debba pagare una “selezione animale” che di fatto ha portato al peggioramento biologico del patrimonio zootecnico, alla riduzione della variabilità genetica, all’ipofertilità, agli stress, alle gravi “malattie professionali” delle super-mucche. Meglio allora che certe cose non si sappiano in giro.

Maledetto Petrini!

di Michele Corti
docente di Sistemi Zootecnici all’Università degli Studi di Milano