Minicaseifici: artigianalità a rischio d’industrializzazione

Col minicaseificio si spinge un bottone e non si pensa ad altro. Dove finirà l’arte casearia? (foto Michele Corti®)La scarsa redditività della vendita del latte, specie nelle zone di montagna e “svantaggiate”, ha da anni spinto a tornare alla trasformazione aziendale molti allevatori che avevano dimenticato (a volte da generazioni) come si lavora il latte. Un ritorno indubbiamente positivo perché consente di valorizzare meglio la materia prima e di attivare filiere locali di commercializzazione (affiancate alla vendita diretta in azienda). Uno sviluppo nella prospettiva di un recupero di autonomia dei produttori.

Sono così proliferati i “minicaseifici”, un termine volutamente equivoco. Un termine che, in ogni caso, assume il punto di vista dell’industria, laddove per la cultura industriale il “caseificio normale” è quello che lavora (almeno) decine di quintali di latte al giorno. I piccoli, dal punto di vista di quella cultura, sono una “simpatica anomalia”.

Cos’è un “minicaseificio”?

Il “minicaseificio” è una realtà che si tende a presentare come “speciale” e “nuova” (sic!) alla quale l’industria provvidamente fornisce attrezzature ad hoc, versione miniaturizzata di quelle dei caseifici “normali”, garantendo il massimo di tecnologia e di igiene e provvedendo ad automatizzare e velocizzare gli arcaici, inutilmente lunghi e tediosi, potenzialmente poco igienici, processi artigianali.

Di fatto al termine “minicaseificio” si assegnano due diverse valenze semantiche: da una parte è definibile come un piccolo laboratorio di trasformazione del latte annesso ad aziende zootecniche piccole e medie, dall’altra un pacchetto “chiavi in mano” di attrezzature in grado di trasformare il latte (preventivamente pastorizzato) in formaggio, yogurt, ricotta.

 

Ovviamente giova all’industria, in un settore dove la concorrenza è ormai agguerrita, far ritenere che alla realtà delle piccole aziende intenzionate a intraprendere il salto verso la trasformazione serva, di necessità, un “minicaseificio”. Filiera corta quindi, ma dentro un quadro di “modernizzazione” che fa parte di un linguaggio rassicurante per chi ha il robot di mungitura, il carro unifeed, gestisce la mandria con il pc e si è plasmato su uno stile produttivo dettato dall’industria (temendo l’identificazione con tutto ciò che sa vagamente di “contadino”).

 

La caldaia “primitiva” permette correzioni in corso d’opera. Il minicaseificio no (foto Michele Corti®)Per molti sono la soluzione giusta

Intendiamoci: i “minicaseifici” rappresentano spesso la soluzione giusta per molte aziende. È un bene che l’industria – parliamo non solo delle multinazionali ma anche delle PMI autoctone – sia in grado di proporre un’offerta differenziata in grado di coprire varie esigenze. Un tempo proposti per volumi di latte da 500 litri in su si sono poi diffusi “modelli” a partire da 200-300 litri e oggi troviamo “minicaseifici” da 50 litri (questi ultimi, invero, lasciano un po’ perplessi).

 

Nella realtà differenziata delle aziende zootecniche il “minicaseificio” proposto dall’industria, caldeggiato e consigliato (in modo più o meno disinteressato) dalle varie agenzie pubbliche e private di consulenza, è la soluzione giusta.

 

Non contestiamo affatto la scelta del “minicaseificio” per chi ha diversi quintali di latte al giorno, pratica un allevamento intensivo (con ampio uso di mangimi e insilati), non si trova in aree con tradizioni casearie particolari e ha un facile mercato di smercio di prodotti freschi più o meno anonimi ai cancelli dell’azienda.

 

Pastorizzi pure, automatizzi pure, pompi latte e cagliate, tagli il coagulo automaticamente etc., utilizzi pure i programmi computerizzati standard per ottenere i prodotti standard che richiede la sua clientela.

 

Quest’ultima, al massimo è in grado , rispetto al prodotto del supermercato, di apprezzare un vago “localismo produttivo”, una generica “freschezza” (che non si pone neppure la questione se il latte sia termizzato/pastorizzato o no). Ma niente di più. è inutile poi pensare che arrivi a lambiccarsi con i fermenti selezionati autoctoni piuttosto che autoprodotti o “selvaggi”

 

di Michele Corti

docente di Zootecnia di montagna

Università degli Studi di Milano

www.ruralpini.it

 

6 maggio 2013

 

La pubblicazione di questo articolo preseguirà lunedì 20 maggio con i seguenti argomenti:

Il “minicaseificio” è un passaporto per l’igiene e la “benevolenza” dei veterinari pubblici?

Quando il "minicaseificio" uccide l'artigianalità casearia

 

L’industria, che vede un numero crescente di produttori di latte sfilarsi dal sistema delle coop e delle centrali, riprende in qualche modo il controllo dei “piccoli caseifici indipendenti” imponendo, attraverso di essi, la sua tecnologia e la sua “cultura”

 

estratto da Caseus Anno XV n.4 luglio/agosto 2010