Il “minicaseificio” è un passaporto per l’igiene e la “benevolenza” dei veterinari pubblici?
Quando però il fenomeno” colpisce” in maniera indiscriminata aziende con vacche di razza Frisona, con razze bovine a duplice attitudine, con ovicaprini, allevamenti di montagna, collocati in località che custodiscono gelosamente preziose tradizioni artigianali di caseificazione, allora non si può fare a meno di ritenere che la “spinta” ai mini caseifici sia divenuta indiscriminata e, diciamolo pure, un po’ “drogata”. Drogata innanzitutto da prospettive di “finanziamento pubblico” che, secondo chi promuove i minicaseifici, riceverebbero una “corsia preferenziale” in forza del fatto che, come recitano le comunicazioni commerciali: “Anche le aziende di dimensioni più piccole, cui il minicaseificio è destinato, devono adeguarsi alle norme sanitarie nazionali ed europee che regolano la produzione dei prodotti a base di latte”. Sì, ma le deroghe per i prodotti tradizionali, le Dop e i Pat, per gli alpeggi dove le mettiamo? Si gioca probabilmente anche sul fatto che l’allevatore-casaro (o aspirante tale) ha tutto l’interesse a “accontentare” i veterinari dei servizi d’igiene pubblica visti spesso come uno spauracchio e una minaccia.
Vittima (auto-vittima) della subalternità culturale nei confronti della dominante cultura urbano-industriale (e di una burocrazia che egli cerca di aggirare, piuttosto che di affrontare di petto individualmente e collettivamente), il nostro amico ritiene che il “minicaseificio” sia un investimento di valore extra-economico. Utilizzarlo equivale a proclamare: “Guarda come mi sono allineato ai paradigmi igienisti, di me ti puoi fidare, non vessarmi inutilmente”.
Dovendo ampliare, ristrutturare o realizzare ex-novo il caseificio aziendale il nostro in cuor suo pensa che il “minicaseificio” rappresenti un viatico per ottenere più facilmente il sospirato “bollino Cee” o almeno la Diap (ex autorizzazione sanitaria alla vendita dei propri prodotti) e un’attenzione meno sospettosa e “fiscale” una volta attivata la produzione.
Quando il “minicaseificio” uccide l’artigianalità casearia
Il guaio è che i “minicaseifici” sono stati rifilati a produttori che avrebbero potuto farne ameno e ai quali hanno comportato più problemi di quelli che annunciano di risolvere. Parliamo di gente che sta in montagna e che ha 15-20 vacche da latte o poche decine di capre o di pecore. Tralasciamo, per la palese assurdità, i “minicaseifici” computerizzati che lavorano le quantità di latte che possono contenere i pentoloni da cucina (siamo nel campo della nevrosi degli inutili mini-elettrodomestici che l’industria ci rifila e che poi giacciono inutilizzati negli armadi delle cucine di casa). Concentriamoci sui “minicaseifici” più “seri” da 200-300 litri.
È facile fare due conti e capire che, molto spesso, un “minicaseificio” eccede la capacità produttiva di una giornata (non parliamo di una munta). La conseguenza è che il latte non viene lavorato tutti i giorni. Ovviamente la qualità ne risente perché il latte refrigerato a lungo subisce delle alterazioni, lavorano enzimi e lavorano gli psicrofili, molto spesso in direzioni anticasearie. Specie laddove la carica microbiobica totale è bassissima in forza dell’ossessione per le pulizie e le disinfezioni. La lunga conservazione del latte quindi è la premessa di un più facile (ma non sempre necessario e non sempre giustificato) ricorso a termizzazione/pastorizzazione che svuotano il senso della lavorazione aziendale con il solo latte dell’allevamento.
Il “minicaseificio” del resto è nato per questo mestiere, per pastorizzare. Per consentire di continuare a lavorare a chi la trasformazione aziendale la praticava già ma aveva problemi o era comunque pressato dai veterinari delle asI. Basti pensare a tutti quei produttori di pecorino aziendale, con le pecore al pascolo, che sono passati alla pastorizzazione. L’onda della “filiera corta” è venuta dopo.
Forse qualcuno se l’è dimenticato ma il “minicaseificio” è figlio di una cultura e di un periodo in cui il latte crudo era guardato con sospetto e si pensava che “l’Europa” non avrebbe tollerato a lungo le “pratiche arcaiche”, che le deroghe sarebbero state eliminate etc. Fortunatamente i tanti casi di contaminazioni con L. monocytogenes e E.coli H157 di formaggi industriali di questi anni (e di questi ultimi mesi) hanno contribuito a indebolire molto questa cultura.
A chi ha il “minicaseificio”, viene sempre, però, la tentazione di “togliersi il pensiero”, e quindi di pastorizzare. Poi, tanto, ci sono le “bustine” di starter industriali. In questo modo il prodotto incontrerà di certo il favore del consumatore che ha esclusivamente l’orizzonte della Gdo nella sua pratica di consumo.
Il problema però è riuscire poi a spuntare un prezzo remunerativo per un prodotto che, per molti versi, rischia di essere simile a quello industriale. Il consumatore abituato alla Gdo e al gusto” addomesticato” è anche abituato ai prezzi della Gdo; quello che cerca qualcosa di diverso non è disposto ad acquistare un prodotto simile a quelli industriali.
Il “minicaseificio”, le “celle” e tutte le attrezzature acquistate dal nostro piccolo produttore devono essere ammortizzate e se manca la domanda e il prezzo “non c’è”…
di Michele Corti
docente di Zootecnia di montagna
Università degli Studi di Milano
20 maggio 2013
La pubblicazione di questo articolo preseguirà mercoledì 29 maggio con la terza e ultima parte
La prima parte di questo articolo è stata pubblicata il 6 maggio ed è raggiungibile cliccando qui
I minicaseifici sono stati rifilati anche a produttori che avrebbero potuto farne a meno
estratto da Caseus Anno XV n.4 luglio/agosto 2010