Minicaseifici: artigianalità a rischio d’industrializzazione / 3

Nelle piccole aziende il latte cambia spesso in ragione di molte variabili, e il minicaseificio non consente i necessari ''aggiustamenti''

Artigiani o operai che "schiacciano bottoni" e applicano "istruzioni" dall'alto? 

A parte l'aspetto della termizzazione e pastorizzazione del latte, ci sono anche altri elementi della logica del "minicaseificio" che fanno a pugni con la cultura della produzione artigianale. Una cultura caratterizzata dalla sensibilità individuale, dall'attenzione costante alla materia prima in trasformazione; una cultura dove l'uso dei sensi umani e l'esperienza non sono optional ma condizioni per l'ottenimento di un prodotto con determinati requisiti di qualità.

Con il "minicaseificio" si "schiaccia un bottone", ci si affida a un programma computerizzato. I parametri – entro certi limiti – possono essere modificati ma è troppo comodo "schiacciare un bottone" ("fa tutto automaticamente"). E poi, una volta partito, il programma procede da sé.

Nella caldaia "primitiva" sono possibili aggiustamenti in corso d'opera (della temperatura, dei tempi di presa del caglio, di sosta, del tipo di rottura). Qui no. I sensi non servono più. Il sapere, l'informazione, è fissata in un programma. Nella lavorazione artigianale per avere un prodotto con caratteristiche desiderate e ragionevolmente costanti il casaro deve variare continuamente i propri parametri (che ne sia consapevole o che agisca "in automatico" attraverso i saperi corporei). I casari, almeno la maggior parte di essi, non conoscono l'antropologia, le disquisizioni sulle "tecniche del corpo" maussiane e il modo in cui esse consentano di "pensare con le dita"; non hanno neppure sentito parlare dello "sguardo della mano" cui fa riferimento Cristina Grasseni (che pure ha scritto su questa rivista e si occupa attivamente di formaggi tipici). Eppure essi padroneggiano queste tecniche e sono depositari di saperi che hanno tutto il diritto a essere considerati di uguale dignità ai "saperi esperti", ai saperi incorporati nei programmi informatici piuttosto che nei corpi. 

 

Ma torniamo alla prassi. A differenza dei caseifici "normali" che lavorano un latte "medio" risultato della miscelazione del latte di molte aziende zootecniche con alimentazione spesso invariata nei 365 giorni, dell'anno, in una piccola azienda di montagna, specie ovicaprina, il latte cambia moltissimo in funzione del ciclo di lattazione e del ciclo vegetazionale, delle condizioni dei prati e dei pascoli (andamento pluviometrico e termico). E cambia, di conseguenza, anche il latte.

Nelle piccole aziende il latte cambia spesso in ragione di molte variabili, e il minicaseificio non consente i necessari ''aggiustamenti''

Poter intervenire con aggiustamenti "fini" (a volte in maniera inconsapevole) è fondamentale. Con il minicaseificio, invece, non lo si può fare (o lo si può fare in modo molto più limitato). Vi è poi un altro ordine di considerazioni. I minicaseifici operano con "vasche di coagulazione" (che servono anche alla pastorizzazione e alla produzione di ricotta) in acciaio o plastica, necessariamente dalle pareti verticali e con il fondo piatto (per consentire il movimento degli agitatori automatici e per altri motivi). L'identità dei prodotti tradizionali è legata anche alla forma delle caldaie, al loro volume, al materiale con cui sono realizzate e, almeno in parte, non può che perdersi con vasche inox dalle pareti verticali. La forma delle vasche fa perdere anche la possibilità di lavorare con gli attrezzi tradizionali per la rottura della cagliata (sempre che non si automatizzi anche il taglio). I casari tradizionali, che sanno quale sia l'importanza di variare le modalità e il grado di rottura della cagliata (come consentito dall'impiego di più attrezzi tradizionali, selezionati da una lunga esperienza), non possono che essere messi a disagio da queste "modernità".

 

La trappola della "microindustrializzazione"

 

Quanto ai decantati grandi vantaggi di risparmio di tempo e di "produttività" che si realizzerebbero pompando il latte, svuotando automaticamente la cagliata negli stampi etc., viene da dire che sono pericolosi specchietti per le allodole per chi ha la necessità di "trattare con i guanti" il latte e la cagliata. Specie se si tratta di latte e cagliate di capra, particolarmente "fragili". In ultimo vi è da ricordare che quando, per difetti di fabbricazione o guasti, il "sistema" fa cilecca il casaro resta a piedi. Se per qualche motivo il sistema di riscaldamento (elettrico, a generazione remota di vapore o altro) non garantisce le temperature "giuste" è un dramma. Ne sa qualcosa chi non riesce a produrre ricotta perché il sistema, per qualche inghippo, non raggiunge la necessaria temperatura. Con l'arcaico sistema di "riscaldamento diretto", con il focolare a legna o a Gpl, e la tradizionale pentolona, questi problemi non si pongono. Ma nell'asettico minicaseificio, che pare una sala chirurgica, la pentolona non si può usare. Forse il casaro ha anche perso la necessaria manualità e forma mentis e si è ridotto ad un operatore dei "bottoni". La "microindustrializzazione" lo ha trasformato nell'operaio di sé stesso (o di coloro per i quali deve lavorare per pagare le attrezzature, le strutture etc.).

 

Morale: dove il latte da lavorare è poco e va trattato" da artisti" non solo il costo di un "minicaseificio" è ingiustificato ma la sua adozione (che spesso si porta dietro anche pastorizzazione e uso dei fermenti industriali) rischia di disperdere i saperi tradizionali e l'identità dei prodotti tradizionali del territorio. 

 

Parliamo, in termini di investimento, di qualche decina di migliaia di euro a confronto dei costi di un pentolone e poco più. In tutto questo ragionamento andrebbero considerati anche i locali di maturazione (""celle" versus cantine naturali") ma il discorso – per quanto strettamente connesso – si allargherebbe troppo e lo riprenderemo in qualche altra occasione).

 

Di tutto ciò dovrebbero tenere conto, in prospettiva di un salutare ripensamento, i servizi di assistenza tecnica e gli uffici che valutano le domande di finanziamenti per attrezzature e "miglioramenti materiali". 

 

di Michele Corti

docente di Zootecnia di montagna

Università degli Studi di Milano

www.ruralpini.it

 

29 maggio 2013

 

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata il 6 maggio ed è raggiungibile cliccando qui

La seconda parte di questo articolo è stata pubblicata il 20 maggio ed è raggiungibile cliccando qui

 

 

Dove il latte da lavorare è poco e va trattato da artisti, il minicaseificio è ingiustificato

 

 

estratto da Caseus Anno XV n.4 luglio/agosto 2010