di Massimo Pes(*) – Completiamo la rassegna dedicata alle colture lattiche naturali parlando dello scotta-innesto. Lo scotta-innesto è una coltura naturale tipicamente impiegata nella fabbricazione di alcuni formaggi ovini quali ad esempio, il Pecorino Romano e il Pecorino Sardo. Viene definito scotta-innesto in quanto il substrato utilizzato per lo sviluppo dei batteri lattici è appunto la scotta, ovvero il siero che residua dalla lavorazione della ricotta.
Dal punto di vista della microflora lattica lo scotta-innesto è caratterizzato dalla presenza di batteri lattici appartenenti prevalentemente a specie termofile (Steptococcus salivarius subsp. termophilus, Lactobacillus delbruechi subsp. lactis e subsp. Bulgaricus, e più raramente Lactobacillus helveticus) che si selezionano nell’ambiente di lavorazione per effetto delle condizioni tecnologiche del processo dal quale derivano e della temperatura di incubazione della coltura stessa. La tecnica di preparazione dello scotta-innesto, così come la descriviamo di seguito, è stata messa a punto più di 40 anni fa dai ricercatori dell’allora Istituto Zootecnico e Caseario per la Sardegna e, nella sua semplicità, risulta tutt’ora validissima oltre che estremamente economica e ripetibile.
In genere si parte prelevando la scotta al termine dell’affioramento della ricotta, poco prima che inizi l’estrazione, quando questa è nella fase di rassodamento. In questa specifica condizione la scotta conserva una temperatura piuttosto elevata, in genere 78-85°C, e pertanto non necessita di ulteriori trattamenti termici dopo il trasferimento negli appositi recipienti ove avviene la fermentazione. Si procede quindi direttamente al raffreddamento della scotta, sino alla temperatura di incubazione, generalmente compresa tra 42 e 45°C. Il raffreddamento può avvenire in gradiente di temperatura, oppure qualora si disponga di una fermentiera, mediante circolazione forzata di acqua fredda. Questa fase, per quanto possibile, deve compiersi rapidamente, al fine di garantire una maggiore sopravvivenza della microflora lattica residua.
Nella pratica comune, a partire dalla stessa scotta, vengono prodotte contemporaneamente due colture, diverse per caratteristiche microbiologiche (rapporti fra le specie microbiche lattiche presenti), e tecnologiche (acidità della coltura, capacità acidificante ecc.). La “coltura non inoculata”, caratterizzata in genere da una microflora lattica meno ricca costituita prevalentemente da streptococchi, con acidità finale di 15-20°SH/100, e la “coltura inoculata”, caratterizzata invece da una microflora lattica più rilevante, costituita da streptococchi e lattobacilli presenti in proporzioni variabili (70-75% streptococchi e 25-30% lattobacilli), con acidità finale più elevata, in genere 30-35°SH/100.
La “coltura non inoculata” si ottiene semplicemente raffreddando la scotta alla temperatura di incubazione e lasciandola poi fermentare a temperatura più o meno costante per le 18-24 ore successive. Invece, la “coltura inoculata”, si prepara aggiungendo alla scotta, raffreddata alla temperatura di incubazione, una piccola quantità della “coltura non inoculata” (in genere 0,1-0,5%, in questo caso definita anche “coltura madre”), proveniente dalla lavorazione del giorno precedente. In questa specifica condizione, la maggior concentrazione iniziale di batteri lattici, fa si che la fermentazione della coltura risulti più rapida, richiedendo un minor tempo per raggiungere il grado di acidità prestabilito, in genere 10-18 ore. In origine la “coltura madre” veniva prodotta esclusivamente in funzione della “coltura inoculata”, che era poi utilizzata direttamente nel latte in lavorazione. Studi successivi dimostrarono che la “coltura madre”, per le caratteristiche tecnologiche delle specie batteriche che la caratterizzavano, risultava particolarmente idonea ad essere utilizzata come “starter” nella fabbricazione di formaggi ove non fosse necessaria un’acidificazione particolarmente intensa, come ad esempio il Pecorino Sardo. Si riscontrava infatti, che i formaggi prodotti con colture a netta prevalenza di streptococchi, come nel caso della “coltura madre”, risultavano migliori dal punto di vista sensoriale rispetto a quelli prodotti con “coltura inoculata”, presentando in genere una pasta meno acida e più mantecata.
Nella pratica odierna del caseificio la “coltura inoculata” è utilizzata prevalentemente nella fabbricazione di formaggi che necessitano di un maggior grado di acidificazione e una pasta con struttura più friabile, come ad esempio il Pecorino Romano, mentre, la “coltura non inoculata”, è utilizzata tal quale o in miscela con la “coltura inoculata” nella fabbricazione di una vasta gamma di formaggi pecorini a pasta semidura, e non di rado, anche nella fabbricazione di alcuni formaggi molli, come ad esempio la caciotta.
(*) Massimo Pes – Agris ricerca
Agenzia Regionale per la Ricerca in Agricoltura
estratto da Caseus Anno XV n.3 maggio/giugno 2010