Difetti del formaggio: il gonfiore tardivo

di Massimo Pes(*) – Completiamo la rassegna dedicata ai difetti del formaggio causati dalle fermentazioni “anomale”, parlando del “gonfiore tardivo”. In genere questo difetto si manifesta nel formaggio in stagionatura dopo qualche settimana o mese dalla fabbricazione e si riscontra prevalentemente nella categoria dei formaggi a pasta dura.

Le forme interessate dal difetto presentano un rigonfiamento più o meno accentuato dei “piatti”, nonché la formazione di occhiature e/o spaccature più o meno grandi, tendenzialmente riunite al centro della pasta. Il difetto è causato dall’attività fermentativa di due gruppi microbici: i clostridi (batteri anaerobici e sporigeni) e i propionici (batteri anaerobici). Entrambi i gruppi batterici sono accomunati dalla capacità di metabolizzare l’acido lattico presente nel formaggio in stagionatura e produrre rilevanti quantità di gas (i clostridi producono anidride carbonica e idrogeno, mentre i propionici, solo anidride carbonica).

Alla produzione di gas è associata anche la formazione di altre sostanze (principalmente acido acetico, acido butirrico, acido propionico) responsabili dell’alterazione delle proprietà sensoriali del formaggio. Quando il difetto è di modesta entità, il formaggio può essere in parte recuperato, destinandolo ad esempio alla preparazione di formaggi fusi, ma se al gonfiore è anche associata una certa attività proteolitica e lipolitica, tipica di talune specie di clostridi, definite “putrefacenti”, il formaggio può subire modificazioni tali, da non permettere alcuna forma di recupero, anche parziale del prodotto. In genere, i batteri propionici, rispetto ai clostridi, esplicano un’attività fermentativa meno devastante. Infatti, i formaggi interessati dalla sola fermentazione propionica, sono facilmente recuperabili e addirittura, in alcuni casi, quando la fermentazione non è molto intensa, le sostanze prodotte possono arricchire il sapore e l’aroma del formaggio.

Il “gonfiore tardivo” insorge quando nel latte crudo, la contaminazione da clostridi e/o propionici, supera un certo livello. Tale limite, nel caso dei clostridi è relativamente basso, giacché sono sufficienti 50 spore/litro per avere complicazioni nella fase di stagionatura del formaggio. La contaminazione del latte, da parte di entrambi questi gruppi microbici, è prevalentemente fecale e ha luogo quando le condizioni igieniche degli animali in mungitura sono precarie. Il rischio di contaminazione aumenta in maniera rilevante quando gli animali sono alimentati con insilati (foraggi fermentati), dove clostridi e propionici possono raggiungere elevate concentrazioni (sino a 1.000.000 per grammo!).

Un’altra fonte di contaminazione del latte può essere rappresentata dal caglio in pasta, essendo prodotto a partire dagli abomasi degli animali lattanti. Questi, quando allo stato fresco, possono contenere elevate concentrazioni di specie batteriche potenzialmente “anticasearie”. Generalmente, se la preparazione del caglio in pasta avviene nel rispetto di precise procedure di salatura, essicazione e conservazione, la microflora “anticasearia” viene in gran parte eliminata. Come possiamo ridurre il rischio d’insorgenza di questo difetto? Purtroppo, in questo caso, ricorrere ai comuni sistemi di trattamento termico del latte, non risolve il problema. Infatti, entrambi i gruppi microbici, possiedono un’elevata termoresistenza alle normali condizioni di termizzazione e pastorizzazione. Addirittura, le spore dei clostridi, sono capaci di superare indenni trattamenti con temperature molto elevate, fino a 100°C! Anzi, l’elevata temperatura ne stimola la germinazione! In tali condizioni è necessario agire direttamente in modo da ridurre il rischio di contaminazione del latte e nel contempo, intervenire sul processo di trasformazione per limitare la possibilità di sviluppo delle cellule eventualmente presenti nel formaggio in stagionatura.

Detto questo, possiamo brevemente elencare le principali norme tecniche da seguire per salvaguardare la produzione:
• ridurre o meglio eliminare l’uso di foraggi insilati dall’alimentazione degli animali in lattazione e, ove non fosse possibile, essere certi della loro elevata qualità batteriologica (limitata presenza di specie “anticasearie”);
• curare le condizioni igieniche generali dell’allevamento, in particolare nella fase di mungitura;
• utilizzare caglio in pasta  prodotto mediante l’applicazione di specifiche procedure, capaci di determinare la naturale riduzione della microflora “anticasearia” in esso contenuta e, per quanto possibile, utilizzarlo previo controllo microbiologico;
• favorire la perfetta coagulazione del latte e lo spurgo del siero dalla cagliata;
• arricchire la microflora lattica del latte in lavorazione attraverso l’utilizzo di una coltura starter, al fine di favorire la regolare acidificazione della pasta del formaggio sino al raggiungimento del pH finale. L’attività dei clostridi e dei propionici è assai limitata a bassi valori di pH (4.90 – 5.00);
• verificare che il latte in lavorazione sia esente da antibiotici e/o sostanze inibenti che possono ostacolare l’attività acidificante della microflora lattica;
• controllare le condizioni di salatura in modo da favorire la regolare ed uniforme penetrazione del sale nel formaggio. Il sale costituisce un fattore limitante per lo sviluppo di questi batteri, tant’è vero che le occhiature sono prevalentemente ubicate al centro della forma, dove in genere si risconta la minore concentrazione di questo elemento;
• controllare le condizioni di stagionatura ed evitare repentini innalzamenti della temperatura, soprattutto durante i primi 60 giorni di maturazione. L’attività dei clostridi e dei propionici è favorita quando la temperatura supera i 12°C.

Infine, è possibile anche utilizzare una sostanza ad azione antifermentativa, il lisozima, un’enzima che ha un’attività specifica verso i clostridi. Purtroppo, non è attivo nei confronti dei propionici e ha una ridotta attività verso alcune specie di clostridi. Per questo motivo l’uso del lisozima non ci mette al riparo dal rischio d’insorgenza del difetto di gonfiore tardivo.

(*) Massimo Pes – Agris ricerca

Agenzia Regionale per la Ricerca in Agricoltura

estratto da Caseus Anno XVI n.34 maggio/agosto 2011