Non tutto è oro ciò che riluce: il caso del latte di “alta” qualità / 3

 foto Michele Corti®Vacche “rottamate” 
Le vacche sono precocemente “riformate” (ipocrisia semantica per non dire “rottamate”) per varie cause, direttamente o indirettamente legate alle super produzioni: zoppìe, dislocazioni dell’abomaso, infertilità, tant’è che la carriera di una “forzata del latte” non supera di poco le due lattazioni. Il che equivale a dire che la vacca (che inizia a produrre latte a due anni e mezzo, dopo il primo parto) arriva, in media, a poco più di cinque anni di vita. Un tempo, quando le vacche non erano spremute come limoni, non era infrequente che arrivassero in piena salute, partorendo regolarmente ogni anno e producendo latte, sino a venti anni di età. Altri tempi.

In una memorabile puntata del programma televisivo “Report” di Milena Gabanelli (17 maggio 2009) gli stessi allevatori e tecnici dell’associazione provinciale allevatori ammettevano “il 48% delle vacche da latte in provincia di Cremona sono primipare, questo significa che ogni due anni si rinnova completamente il parco vacche da latte; e sono costi incredibili”. Essi ammettono anche che “la mucca è stressata; ha dei problemi per cui o non riesci ad ingravidarla o ha dei problemi che sta in terra, non s’ingravida più… non produce più latte… devi venderla perché è un peso, non si paga più le spese”. A parte le patologie allo stato più o meno conclamato è la stessa fisiologia della super-produzione a mettere fuori gioco le lattifere: l’equilibrio metabolico e, soprattutto, ormonale, legato alla super produzione è in conflitto con la fertilità… e le tapine non “tengono mai”.
La fase più critica di stress e malessere delle bovine da latte è quella del primo periodo di lattazione. Il lieve e transitorio deficit energetico di una mucca “normale” legato alla depressione dell’appetito post partum e alla contemporanea rapida e notevole crescita del fabbisogno energetico per sostenere la “montata lattea” è diventato un deficit profondo e prolungato che “prosciuga” le riserve corporee dell’animale (il tessuto grasso più che il magro). Il grasso accumulato nella fase di “asciutta” non è molto in animali geneticamente predisposti alla super-produzione e viene rapidamente utilizzato. Le vacche diventano pelle e ossa (con le costole ben in rilievo come nel caso dei bambini africani vittime delle carestie o dei detenuti nel lager).
Delle vacche “riformate” circa l’80% – sia pure in condizioni non certo perfette – è comunque “idoneo alla macellazione” (in grado cioè di subire l’autotrasporto senza riportare eccessive sofferenze e di salire e scendere con le proprie zampe dal camion). Un 10% di esse viene certificato “non idoneo” e deve essere abbattuto sul posto. La carcassa dev’essere “smaltita” e incenerita (al costo di circa 250,00 €, a carico dell’allevatore). Vi è poi la quota rimanente, che non sarebbe idonea al trasporto (le cosiddette “vacche a terra”, che non si rialzano più dopo il parto o che hanno subito traumi gravi, fratture etc.) ma che – per evitare i costi di “smaltimento” e per non far perdere la carcassa all’industria di macellazione – viene caricato lo stesso sui camion come oggetti ormai inutili (con l’aiuto di verricelli o altri sistemi “meccanici” comunque disumani). Purtroppo questa pratica è continuata anche dopo le denunce della LAV (Lega Anti-Vivisezione) le trasmissioni televisive che ne denunciavano l’esistenza, e le condanne inflitte ad alcuni allevatori.
Allevatori che non ci guadagnano, e che quasi quasi devono ringraziare chi gli “porta via” la bestia (del resto anche per vacche “in carne” prende poco o niente, vale a dire circa 100,00 €). Poi l’industria di macellazione trasformerà la carcassa della povera mucca in hamburger (quelle in migliori condizioni anche in bistecche e tagli pregiati), guadagnandoci non poco. Dal momento che le vacche “rottamate” sono tante (vista la breve “carriera” delle forzate del latte) il business non è dei minori.
Un po’ di pietà per le “mucche” 
Le questioni del “benessere” delle vacche da latte non hanno sinora attirato molte attenzioni (se si esclude la campagna LAV sulle “mucche a terra”, del 2006). Il pubblico pensa che la vacca, dopotutto, se la passi meglio di una gallina ovaiola in gabbia o di un maiale chiuso in un box super-affollato con decine di suoi simili in attesa di essere trasformati in prosciutti. Ma le cose non stanno così, come abbiamo cercato di evidenziare. Il latte è un alimento che richiama sensazioni di pace (ha proprietà sedative); è all’opposto della carne e del sangue (che richiamano aggressività). Dietro l’apparenza, però, l’industria del latte è crudele e cruenta nei confronti proprio di chi il latte genera: le vacche. La peggiore crudeltà, però, non è quella che si manifesta con gli animali spremuti sino alla fine, malati cronici, piagati, rachitici (e magari anche bastonati e tirati coi verricelli sui “camion della morte”). No. La crudeltà peggiore, “strutturale”, è quella di chi si occupa del “miglioramento genetico” col fine di produrre super-tori padri di vacche super-dotate (“super” nel senso della maggior produzione di latte). È gente che non si sporca le mani, lavora nei “centri studi” occupandosi di statistica e algoritmi. Sono espressione di una cultura tecno-scientifica che non può essere facilmente assolta addebitando le “colpe” alle componenti politiche ed economiche del sistema (con le debite proporzioni allora “assolveremmo” gli scienziati che hanno concepito la bomba atomica come se la scienza fosse “neutra” e “vergine”).
Lo stop a questa crudeltà si avrà solo quando entreranno in vigore norme sul benessere delle vacche da latte che imporranno uno stop alla selezione genetica per la produzione di latte (la causa principale dello scarso benessere di questi poveri animali) e norme senza deroghe sul diritto delle bovine a riposare sulla paglia, a camminare sull’erba, ad essere alimentate da erbivori quali in fin dei conti sono; piaccia o non piaccia agli industriali del latte.

di Michele Corti

docente di Zootecnia di montagna

Università degli Studi di Milano

Terza e ultima parte dell’articolo.
La prima parte è stata pubblicata il 15 aprile 2013 ed è raggiungibile cliccando qui

La seconda parte è stata pubblicata il 22 aprile 2013 ed è raggiungibile cliccando qui

estratto da Caseus Anno XV n.1 gennaio/febbraio 2010