3 settembre 2013 – Spesso sentiamo o facciamo commenti sul giusto rapporto qualità/prezzo di un cibo. Ma come facciamo a dire se tale rapporto è corretto, adeguato o se è invece sproporzionato? Che strumenti conoscitivi abbiamo? Del prezzo ne conosciamo il valore, ma come facciamo a dare un valore alla qualità? Prendiamo il caso del latte alimentare. Il prezzo del latte fresco pastorizzato oscilla da 1 euro a 1.70, l’etichetta delle varie marche riporta sempre la stessa composizione (è tutto una copia copia), il sapore è latitante e comunque simile fra i diversi latti. Certo, c’è anche il fresco pastorizzato di Alta qualità, che è sempre il più caro, ma il consumatore non ha nessuno strumento per capire se quel latte è veramente di una qualità superiore. Vediamo brevemente perché vi è un latte di Alta qualità.
In Italia la gran parte del latte alimentare è prodotto da aziende molto intensive, aziende che, fino a pochi anni fa, si vantavano di avere le vacche più produttive, le campionesse. Negli anni Ottanta il sistema intensivo italiano, per salvaguardare la fetta di mercato e per porre una barriera all’importazione di latte, spesso di migliore qualità e comunque decisamente meno caro, pensò di puntare sul latte fresco pastorizzato una sola volta (quello di importazione, causa la distanza, doveva essere pastorizzato alla partenza ed all’arrivo) e su un marchio accattivante, onomatopeico: Alta qualità. Ma fece ancora di meglio: pretese ed ottenne una legge ad hoc: la 169/89.
Per far questo si dovettero individuare i parametri per definire l’Alta qualità. Non avendo gran che a disposizione, utilizzarono i parametri minimi di grasso e proteina, come se quelli massimi fossero negativi, e poi puntarono molto su quelli igienici: carica batterica e cellule somatiche. Che ci fosse un’esigenza di una maggiore igiene non si discute, ma che l’igiene potesse essere sbandierata e spacciata per qualità era ed è un divertissement, una favoletta per bambini viziati.
Qualcuno potrebbe dire che a quel tempo queste fossero le conoscenze. Invece no, non è così. Già nella seconda metà degli anni Ottanta era chiaro che la qualità del latte e dei formaggi dipendeva da molecole che poco avevano a che fare con grasso e proteine. Già si parlava di terpeni, di sesquiterpeni. Agli inizi degli anni Novanta gli americani scoprirono che il Cla (Acido Linoleico Coniugato) preveniva molte forme tumorali. Ricercatori tedeschi avevano visto che gli oligosaccaridi del latte avevano una importante funzione nell’alimentazione dei bambini. In quegli anni, con Laura Pizzoferrato dell’Inran (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) avevamo abbandonato l’analisi del grasso e delle proteine e ci eravamo indirizzati verso le vitamine, il betacarotene, i tocoferoli e la componente aromatica.
Alla fine del secolo, Laura Pizzoferrato aveva proposto di misurare la qualità del latte usando come parametro il Gpa (Grado di protezione antiossidante), un indice che tiene conto del colesterolo e degli antiossidanti che ne bloccano l’ossidazione perché, diceva, non è il colesterolo che crea problemi, ma i suoi ossidi e quindi è importante la presenza degli antiossidanti. In quest’ultimo decennio abbiamo avuto conferma di tutta una serie di intuizioni: la qualità aromatica e nutrizionale del latte dipende dalle erbe e da tanta erba, che grasso e proteine sono ininfluenti, che il Grado di Protezione Antiossidante è il parametro che meglio di tutti permette una valutazione quantitativa della qualità.
Tanto per fare un esempio e per dare, come si suol dire, dei numeri, il Gpa oscilla da 4 per gli animali alla stalla, a oltre 20 per quelli al pascolo. Ritornando quindi al rapporto qualità/prezzo, un latte ed un formaggio di animali al pascolo dovrebbero costare almeno cinque volte di più del latte e dei formaggi di animali alla stalla. Ritorniamo al latte alimentare e, nello specifico, a quello di Alta qualità. Nel mese di luglio, l’Iran, ora Cra-Nut (Centro di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione), ha pubblicato i dati di una ricerca sul latte e sui formaggi (pdf, 7,2Mb; scaricabile cliccando qui).
Nel prossimo corsivo vi parlerò dei formaggi; per ora mi limiterò al latte. Pamela Manzi ed i suoi collaboratori hanno analizzato il latte di Alta qualità, il latte microfiltrato e quello Uht. Ebbene il Gpa di questi 3 latti è il seguente: Alta qualità, 5,28; Microfiltrato, 6,38; Uht, 6,85. Secondo quindi questi dati, il latte di Alta qualità ha un grado di protezione antiossidante più basso del latte microfiltrato e, udite udite, persino del latte Uht. Come è possibile? Sappiamo che i trattamenti termici deprimono la qualità. Il latte Uht è trattato a oltre 135°C, quello microfiltrato subisce un trattamento fisico, dovrebbero esserci delle influenze negative sulla qualità.
Perché allora questi risultati? Semplicemente perché la materia prima usata per queste tipologie di latte viene dall’estero, dove, quasi sempre, gli animali sono meno stressati di quelli italiani e dove, d’estate, spesso gli animali sono al pascolo e dove, infine, i fieni sono di migliore qualità. Quindi, questi latti, pur sottoposti a trattamenti che ne deprimono la qualità, alla fine mostrano una qualità superiore al latte di Alta qualità “nostrano”. Ritornando al rapporto qualità/prezzo, il latte di Alta qualità costa intorno a 1,50 euro, il microfiltrato meno di un euro, l’Uht, intorno all’euro.
A conti fatti, il settore del latte alimentare è l’unico in cui il rapporto prezzo/qualità risulta negativo: ad un costo alto corrisponde una bassa qualità e viceversa. Quindi, la legge 169/89 è da abolire, perché è un inganno per il consumatore.
di Roberto Rubino
presidente ANFoSC
(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)
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