Latte alimentare: nessun nesso tra qualità reale e prezzo al dettaglio

Il latte fresco intero della cooperativa bavarese Berchtesgadener e quello di Cascina Roseleto di Villastellone (TO), due "latti" come quelli di una volta: da vacche alimentate estensivamente ad erba e fieno. L'esito delle analisi comparate con i latti industriali ha dimostrato che questi latti hanno valori nutraceutici di grande interesse per l'alimentazione umana
I latti migliori disponibili sul mercato italiano costano il 15-20% in più di un latte industriale. Ma valgono enormemente di più (Cascina Roseleto: ben oltre i 150 giorni di pascolo annuo)

17 settembre 2013 – Il prezzo del latte alimentare, a parità di trattamento termico, varia molto da un marchio all’altro. Se prendiamo, per esempio, il latte fresco pastorizzato di Alta Qualità, il prezzo oscilla da 1,00 a 1,60 euro. Una variazione enorme per latti che, teoricamente, hanno la stessa composizione chimica. Almeno così è scritto sull’etichetta. Potremmo essere portati a pensare che, poiché il trattamento termico è lo stesso, così come il tipo di contenitore, questa differenza sia dovuta al latte di partenza. Vediamo allora qual è la situazione del prezzo del latte alla stalla. In molti Paesi europei il prezzo del latte è unico, concordato di volta in volta fra le associazioni di categoria e l’industria del latte.

A questo prezzo si dovrebbe aggiungere un premio alla qualità, e diciamo che “si dovrebbe” perché esso non sempre viene rispettato. Ma, laddove viene adottato, il metodo consiste nell’aumentare o diminuire il prezzo di soglia in relazione all’igiene e al contenuto di grasso e proteine. Di più sul latte alimentare, di meno sui formaggi, l’igiene è importante perché assicura una maggiore stabilità del latte, mentre grasso e proteine non hanno alcuna relazione con la qualità nutrizionale ed aromatica.

Quindi, quando viene pagato qualche centesimo in più, non lo si fa per incoraggiare a produrre qualità ma solo per fornire all’azienda che imbottiglia margini di sicurezza maggiori sulla stabilità del prodotto. In sostanza, non viene premiato l’allevatore che fa un latte di migliore qualità, bensì chi garantisce maggiore igiene, situazione questa assicurata, nella stragrande maggioranza dei casi, dalle aziende molto intensive, industriali, la cui qualità del latte, per definizione e per le cose scritte nei nostri due corsivi precedenti, è ai minimi livelli.

Ne deriva che non solo il prezzo del latte al consumatore non è mai correlato con la qualità ma anche che all’allevatore non viene riconosciuto un prezzo giusto, anzi, si giunge al paradosso per cui riceve di più chi ha un livello qualitativo più basso.

È chiaro a questo punto che l’unica soluzione è di cambiare il metodo di pagamento del latte alla stalla. Abbiamo visto che il parametro che meglio di tutti ci può dare una misura quantitativa della qualità è il Gpa (Grado di Protezione Antiossidante). Sappiamo che questo indice, negli animali alla stalla oscilla da 4 a 10; uno scarto importante che la dice lunga sulla forbice di qualità. Se allora il latte venisse pagato secondo questo parametro, sarebbe giustificato un prezzo così variabile, con la differenza che ne beneficerebbero i consumatori ed i produttori. Resterebbe la questione dell’igiene. Oggi sappiamo che un eccesso d’igiene non è più auspicabile. In questi ultimi anni il mondo della medicina si sta interrogando sui danni alla salute (immunodepressione, intolleranze) derivanti da latti trattati termicamente. Quindi questo aspetto andrebbe meglio approfondito.

Resta il problema della comunicazione, dell’etichetta. Oggi purtroppo la legge 169/89 pone paletti che risultano ormai superati. È un argomento complesso, che affronteremo più in là. Per adesso verrebbe solo da dire che forse è meglio seguire la strada del vino: ogni produttore scrive quello che vuole, l’importante è che sia poi in grado di dimostrarlo.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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