La qualità del latte e la lezione del tassista spagnolo

Serve il pascolamento per garantire la qualità reale al latte e ai suoi derivati. Lo spiega bene il servizio del TG Leonardo del 19 aprile scorso23 ottobre 2013 – I miei due ultimi corsivi hanno suscitato una discussione con alcuni lettori sulla seguente questione: i produttori di latte hanno contezza della qualità del proprio prodotto? E soprattutto, sanno raccontare le motivazioni che ne determinano la specificità? Ritorno sull’argomento per chiarire meglio il mio pensiero. Innanzitutto va chiarito e condiviso con i lettori il concetto di qualità.

Una delle epifanie del mio percorso scientifico l’ho avuta in una fredda mattinata da un tassista spagnolo che mi accompagnava al Concorso del formaggio Idiazabal. Avendo capito che mi occupavo di formaggi, mi disse che il padre possedeva otto vacche e che, ai figli, non dava il latte di miscela della piccola mandria, bensì solo quello della vacca meno produttiva e che era più grassa. Al tempo dell’Università, a noi studenti insegnavano che la buona vacca deve essere magra e deve produrre molto latte. Ho impiegato molti anni per capire che l’insegnamento ricevuto era sbagliato e che aveva ragione il padre del tassista: la qualità dipende dalle erbe e dall’erba.

I concentrati (mangimi, in genere granaglie) hanno solo un effetto diluizione: più latte meno qualità. Un giorno esposi la mia teoria ad un allevatore aggiungendo che, in fondo, i concentrati sono solo un costo inutile. Quando lo rividi alcuni mesi dopo, mi disse che aveva applicato alla lettera il mio suggerimento eliminando i concentrati. La qualità era aumentata, la quantità leggermente diminuita e, aggiunse: “in azienda non vedo più il veterinario”. Spesso mi chiedo: ma gli allevatori che producono latte di Alta Qualità, che per definizione proviene da vacche molto produttive e magrissime, questo latte lo bevono in casa, lo danno ai propri figli e, se come immagino, sì, sono veramente convinti che quel latte sia di alta qualità? Io credo di sì, credo che gli allevatori dei sistemi intensivi siano veramente convinti di fare qualità. Tanto è vero che alla mia domanda sul perché di questa affermazione, parlano di grasso, di proteine, di carica batterica. Insomma di parametri e molecole che niente hanno a che fare con la qualità. D’altronde se queste cose le insegnano all’Università, non se ne può fare una colpa all’allevatore. 

Diversa è la situazione nei sistemi pastorali e negli allevamenti meno intensivi, dove la qualità nutrizionale e aromatica del latte e dei formaggi è certamente diversa. Questi allevatori percepiscono di avere a disposizione un latte diverso ma non riescono a capire perché. Ed in questo non sono aiutati dal casaro o dal tecnico del caseificio a cui consegnano il latte. Quest’ultimo è interessato al grasso e alla proteina perché questi parametri gli permettono di avere una maggiore resa. La stragrande maggioranza dei caseifici non è interessata alla qualità semplicemente perché è prigioniera della teoria dei costi e della “strategia” di acquisire qualche nuovo cliente diminuendo il prezzo. Sono rarissimi i produttori di formaggi che vogliono competere sulla e con la qualità. Chiunque voglia entrare in un supermercato la prima cosa che deve fare è diminuire i prezzi. Ma grasso e proteine non hanno niente a che fare con la qualità. E per capirlo non c’è bisogno di grandi studi. Basta fare il confronto fra un burro di animali al pascolo e uno di animali alla stalla. Entrambi hanno lo stesso contenuto di grasso (82%), ma la differenza in sapore e valore nutrizionale è enorme. Il primo è giallo, perché ha un alto contenuto di beta-carotene, l’altro è bianco perché ne è privo. Il beta-carotene passa dall’erba al latte e se e quando l’animale pascola sarà alto anche il contenuto di tocoferoli. Entrambe queste vitamine hanno un potere antiossidante. Se il loro contenuto è alto è perché il livello degli acidi grassi insaturi è anch’esso alto, altrimenti il latte si ossiderebbe. Infine, se mangiano erba ed erbe diverse, elevato sarà anche il contenuto di flavonoidi, terpeni, fenoli, molecole queste che hanno un’ influenza marcata sull’aroma.

Ma come fa l’allevatore a raccontare tutto questo se il consumatore quando vede il burro giallo o una ricotta gialla dice che è un prodotto ossidato e non lo vuole?

Insomma la situazione è complicata ma da qualche parte dobbiamo incominciare. Noi prossimamente abbiamo deciso di affrontare il problema del giallo organizzando, per la prossima primavera, l’evento: “arrivano i gialli”. Ve ne parlerò in uno dei miei prossimi corsivi.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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