Quei ”light non-light” stretti tra normative e gap culturali

 2Alla fine della giornata i partecipanti porteranno a casa il loro formaggio cremoso prodotto da latte di mucche felici9 ottobre 2013 – L’articolo di apertura della settimana scorsa era dedicato ai formaggi light o meglio ad una ricerca europea che si è posta l’obiettivo di dare un briciolo di sapore ai formaggi privati del grasso. Le ragioni riportate in quel pezzo (che potete trovare qui) sono opportune ed esaustive ed io mi limito a trattarne una, più nello specifico. Nel mondo vi sono due visioni, due modi di vedere la qualità del latte e dei formaggi.

C’è la visione anglosassone, che privilegia la quasi-sterilità del prodotto e gioca sulle molecole, acidi grassi saturi, insaturi, vitamine. Niente sapori, nessun equilibrio fra le componenti. E poi c’è la visione mediterranea, che va alla ricerca dei sapori, dei profumi, sperando ed immaginando che questo patrimonio di molecole viaggi e si accompagni anche alle molecole di interesse salutistico. Quindi, liberi loro di mangiare molecole sterili, liberi noi di andare dall’altra parte. Loro non si preoccupano del nostro approccio, ergo, noi non dovremmo occuparci del loro.

Purtroppo noi non solo ce ne occupiamo, ma mandiamo anche presso le loro Università i nostri giovani ricercatori. Che poi ritornano, purtroppo, con la pretesa di saperne di più e di voler portare il settore verso quella direzione. Ci spieghiamo allora il perché dei sistemi simil-americani, il mais, la vacca iperproduttiva di razza Holstein, la sincronizzazione dei parti, la somatotropina, l’inincrocio delle vacche, l’unifeed come alimento unico, la scarsa qualità del latte ed un benessere animale pessimo.

Parliamo allora dei nostri formaggi light. Prima questione. In Italia esistono i formaggi light? La domanda sembrerà capziosa o prosaica. Certamente che esistono, basta guardare il banco del supermercato! Rifaccio allora la domanda in italiano stretto? Esistono in Italia i formaggi leggeri o magri? Questa volta la risposta è: no (almeno a mia conoscenza)! Per capire l’arcano facciamo un giro largo. Il latte è costituito essenzialmente da grasso e proteine, oltre all’acqua e ad una modesta percentuale di sali minerali e vitamine. Il grasso si trova in genere in quantità più elevata rispetto alle proteine. Se provate a leggere l’etichetta di una busta di latte, vedrete che il grasso è 3,5% e le proteine 3,2%. Naturalmente questo rapporto non è fisso, ci sono alcune razze come la pecora Gentile di Puglia o la vacca Jersey o la bufala in cui il grasso è molto più elevato. L’equilibrio che nel latte c’è fra le molecole, lo ritroviamo nel formaggio: nella stragrande maggioranza dei casi, il contenuto di grassi è sempre superiore a quello delle proteine del 30-50%. In Italia, la differenziazione dei formaggi in relazione al grasso è codificata per legge. In base al contenuto di grasso, espresso sulla sostanza secca (Legge n. 142/1992) abbiamo: formaggi grassi, il cui contenuto di grasso è superiore al 35% della sostanza secca; formaggi leggeri, quando il contenuto di grasso varia tra il 20 e il 35% della sostanza secca; formaggi magri, preparati con latte scremato, con contenuto di grasso inferiore al 20% della sostanza secca.
Quindi, in Italia, non c’è alcun formaggio leggero o magro. E nemmeno la ricotta è magra, contrariamente a quanto prestigiosi dietologi affermano. Anche perché un formaggio magro sarebbe poco appetibile (provate a vedere in quanti formaggi viene aggiunta la panna per renderli più gradevoli, vista la scarsa qualità del latte da cui provengono) ed appetito, poco sapore e soprattutto con una struttura elastica, gommosa. Per la verità fanno eccezione due formaggi: il Fromadzo Val D’Aosta, che è anche una Dop e il Graukäse, o Formaggio grigio dell’Alto Adige. Ma entrambi sono rari e, se ancora in circolazione, lo sono per pochi “intimi”.
Ritorniamo ai formaggi light. Come si conciliano le due realtà? Semplicemente con l’uso della lingua. La legge italiana non può intervenire sui termini stranieri. Quindi i formaggi che si trovano in commercio si chiamano “light” ma potrebbero chiamarsi Roberto, o Biancofiore. E che non siano light basta leggere l’etichetta che, mai come in questo caso, e se ne capisce il motivo, è dettagliata. Molto spesso il grasso è in quantità più che doppia rispetto alle proteine. Quindi, quel formaggio è più grasso di un formaggio grasso.

E allora, lasciamo stare il light, ma seguiamo il buono, pulito e giusto di Carlo Petrini: ce ne saranno riconoscenti i produttori seri, la natura e gli animali.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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