5 novembre 2013 – Uno spettro si aggira per le imbrunite montagne del Molise: il progetto Gran Manze. Questa volta non si tratta del figlio di Di Pietro a far parlare del Molise o dello stesso Di Pietro, bensì della Granarolo, che ha deciso di impiantare un mega allevamento di manze senza terra, dalle parti di Guglionesi, nelle vicinanze dell’autostrada e, soprattutto, sulle colline con vista sul mare.
Tutti ne parlano, quelli a favore invocano, per la verità con il solito cappello in mano, che cinquanta posti di lavoro, di questi tempi, sono un miracolo, quelli a sfavore si soffermano soprattutto sull’impatto ambientale e sull’immagine negativa che ne potrebbe derivare al Molise. Non entro quindi in queste tematiche: io sono uno zootecnico e mi limiterò a ragionare sul perché, per la prima volta – credo – in Europa e forse nel mondo, si vuole attivare un così grande allevamento di sole manzette e, soprattutto, perché la Granarolo, che domina incontrastata il mercato del latte, abbia deciso di impegnare risorse enormi in un settore in cui non ha competenze specifiche (un conto è vendere latte, un conto allevare bovine).
Incominciamo dal perché un “campo di concentramento” per aspiranti vacche (un esercito di giovani bovine concentrate in un unico allevamento!). Quando io studiavo Agraria, all’inizio degli anni settanta, il coefficiente di rimonta, cioè il numero di vitelli che dovevano sostituire le madri che uscivano dall’allevamento, era talmente basso che all’allevatore restavano anche vitelli da vendere. Con il passare del tempo, a mano a mano che la selezione diventava più efficiente, che l’alimentazione si perfezionava con l’aiuto dei computer e con studi sempre più approfonditi e che il benessere animale era persino codificato con leggi severe, la situazione è completamente cambiata. La produzione di latte è più che raddoppiata, quindi, la sua qualità si è praticamente dimezzata (lo hanno capito i produttori “illuminati” del vino, che per aumentare la qualità riducono le rese), l’alimentazione è peggiorata notevolmente perché, per sostenere quelle produzioni, si doveva far ricorso ai concentrati abbassando la quota di erbe che per dei ruminanti non è proprio l’ideale ed è peggiorata anche la qualità della poca erba che si distribuisce, perché prodotta con abbondanti concimazioni e diserbanti. Tutta questa attenzione supersofisticata ha prodotto un notevole calo del benessere animale reale, per cui dopo il secondo-terzo parto l’animale viene avviato al macello (a circa cinque anni di età). E’ il caso di dire che non si fa nemmeno in tempo ad imparare il nome della vacca che quella già viene sostituita con un’altra. Inutile aggiungere che, a questo punto, la parola “rimonta” è diventata obsoleta, credo che oggi quasi nessuno la ricordi.
Gli allevatori non sanno come risolvere il problema, tanto che oggi le manzette rappresentano un costo enorme e soprattutto, un vero problema, perché l’approvvigionamento è sempre incerto. E poi, fra poco toglieranno le quote latte. Molti stanno riscaldando i muscoli per aumentare la produzione di latte attraverso un innalzamento dei livelli produttivi ed un incremento del numero dei capi. Dove prendere tutte le vacche che necessitano? Cosa fare? Se la causa di tutto questo è quello che ho riportato, la soluzione migliore starebbe nel recuperare il benessere animale, stressarli di meno e farli vivere di più. Ne beneficerebbe l’animale, il consumatore, perché la qualità del latte rinvenirebbe, e lo stesso allevatore. Chiaramente non tutti gli allevatori dovrebbero ritornare al passato. Basterebbe che lo facessero i più saggi, quelli che se lo possono permettere, quelli che vorrebbero chiamare per nome la vacca. Anche perché: che salute avranno quelle vacche allevate in un allevamento senza terra, con razioni che obbligatoriamente devono costare poco e tutte costrette in spazi minimi con implicazioni sul benessere facilmente prevedibili? Invece non lo farà nessuno, ed allora qualcuno dall’esterno se ne dovrà pur occupare. Ed è così che a quel grido la Granarolo ha ritenuto opportuno rispondere.
Naturalmente io non so perché la Granarolo si è infilata in questo ginepraio. Provo solo ad immaginare le motivazioni che possano aver spinto una delle più grandi aziende del settore latte a dare un sostegno così importante – ma con un progetto così debole – alle aziende intensive. Sappiamo che la qualità nutrizionale ed aromatica del latte dipende dalle molte erbe diverse contenute nel fieno e dalla quantità elevata dell’erba nella razione. Questo tipo di razione fa diminuire la produzione di latte ma ne fa aumentare la qualità. L’ultimo studio dell’Iran (pdf, 7,2Mb: scaricalo da qui) pubblicato sul sito del Cra-Nut (Centro di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) ha dimostrato che il Latte italiano di Alta Qualità ha un Grado di Protezione Antiossidante (beta-carotene, tocoferolo/colesterolo) persino più basso del latte Uht (perché il latte Uht arriva in prevalenza dall’estero, e all’estero le vacche in genere sono nutrite meglio, nda). Quindi, per definizione, il Latte di Alta Qualità, almeno quello che viene da aziende intensive, con alte medie di produzione per capo, è il più scadente. La Granarolo ha in mano il mercato dell’Alta Qualità, però raccoglie latte sia da aziende intensive e sia da aziende meno intensive, che spesso stanno in alta collina e in montagna, i cui fieni non si limitano alla sola erba medica. Quindi la qualità del prodotto che si trova in commercio è sempre superiore a quella delle singole aziende intensive, a prescindere che sia etichettato come Alta Qualità.
Pertanto la Granarolo riesce ad immettere sul mercato un latte di discreta qualità non certo grazie a quelle aziende intensive che vogliono il progetto manzette, ma a quelle aziende di collina che non hanno bisogno di manzette perché il benessere dei loro animali è buono e le vacche vivono oltre i dieci anni. Anzi, il futuro di queste aziende è minacciato proprio dai sistemi intensivi e da un modello di pagamento del latte che li penalizza fortemente (siamo ancora a remunerazioni basate solo su grasso, proteine e carica batterica). E allora perché la Granarolo difende gli interessi della pianura? Perché probabilmente ha bisogno anche di quantità e non solo di qualità. Per disporre di tutte queste quantità e per assicurarsi una quota certa di mercato, quale strumento migliore di questa carta vincente, della disponibilità del “ponticello” attraverso il quale tutti gli allevatori sono obbligati a passare? Di qui una nuova forma di soccida: io ti do le manze e tu mi dai il latte ed il prezzo lo faccio io perché ho la chiave del ponte levatoio.
E il Molise, il verde Molise, l’immagine di un ambiente e di un paesaggio incontaminati? Già qualcuno ha detto che la cultura non dà da mangiare, figuriamoci l’ambiente.
di Roberto Rubino
presidente ANFoSC
(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)
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