Non giova neanche alla vacca l’igiene eccessiva del latte

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foto Universidad de Santiago de Chile©

11 febbraio 2014 – La legge 169/89, quella – per intenderci – che indottrina noi comuni mortali su cosa è la qualità del latte e volgarmente conosciuta come “legge Alta qualità”, ha nella Carica Batterica il parametro chiave della sua filosofia. Il latte può essere classificato come “Alta qualità” e, per questo, ricevere un prezzo più alto, se la carica batterica è inferiore a 100mila batteri.

A chi giova una carica batterica così bassa? Perché merita di essere premiata?

Proviamo a vedere la questione dalla parte dell’industria che produce latte alimentare. Il latte, all’arrivo in azienda, subisce almeno una pastorizzazione. Salvo cariche esagerate, di fatto fuori legge, parliamo di milioni di germi, la pastorizzazione eliminerebbe senza problemi i germi, rendendo il latte vendibile come “pastorizzato fresco”. Quindi, se la carica è nei limiti di legge, al di sotto di 400mila, nessun problema, né per l’azienda e né per il consumatore. E allora perché scendere a livelli così bassi, perché esasperare la “pulizia” con interventi non certo indolori?

Guardiamola ora dal punto di vista del caseificio. Fino a qualche anno fa, in caseificio, almeno in quelli aziendali o in quelli che raccoglievano il latte in aree pastorali, la carica batterica elevata era un grosso problema. I gonfiori erano all’ordine del giorno e si eccedeva nel sale perché il casaro aveva capito che abbondando, ne avrebbe attenuato gli effetti. Ma negli ultimi anni sono stati fatti enormi passi avanti ed ormai le cariche batteriche rientrano pressoché sempre nei limiti di legge. Con il latte di Alta qualità invece il problema si è presentato sotto una nuova veste. Una carica batterica bassa significa latenza di batteri lattici. E senza i batteri lattici il formaggio non si fa, perché il latte non coagula. Per risolvere il problema il casaro ricorre ai fermenti, ai cosiddetti starter, o meglio al fermento, ad un solo fermento. Quindi, ad un latte già povero di nutrienti, il casaro risponde eliminando la biodiversità microbica, inserendo un unico fermento. Se pensiamo che mediamente ogni caseificio avrebbe un potenziale microbico di almeno trenta ceppi diversi di fermenti, si fa presto a capire che l’igiene, o meglio, l’eccesso di igiene, sta aggravando i problemi del settore, accelerando il passaggio verso la banalizzazione dei formaggi.

Proviamo ora a vederla dal punto di vista del consumatore. Se pensiamo al latte alimentare, la pastorizzazione comunque elimina la gran parte dei batteri lattici, quindi la biodiversità è quasi azzerata. Però una carica batterica bassa, con pochi fermenti lattici, comunque attenua il potenziale aromatico e salutistico. Quindi, comunque quel latte è meno vitale.

Se parliamo poi di formaggi, l’handicap è ancora più evidente e verificabile. I fermenti (il fermento) aggiunti colonizzano in breve la pasta ed eliminano tutti gli altri batteri presenti. Il formaggio perde in complessità aromatica, le note praticamente scompaiono per appiattirsi su un sapore di pane, la perdita di biodiversità indebolisce le difese immunitarie. In Francia un recente studio effettuato su tutto il territorio nazionale ha rilevato che la biodiversità microbica sta drammaticamente riducendosi, tanto che i microbiologi stanno raccomandando di lavare meno le mammelle delle vacche.

Quindi la maggiore igiene – l’igiene esasperata – non giova a nessuno, nemmeno alle vacche e tantomeno al consumatore. Eppure “noi” quel latte lo premiamo.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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