4 dicembre 2014 – Ritorno volentieri sulla questione Coca Cola sia perché il settore ne ha molto sottovalutato la portata e gli effetti e sia perché l’analisi che ha determinato questa scelta è esemplare e indicativa dei limiti del sistema. La Coca Cola non si è limitata a mettere in vendita un nuovo tipo di latte; ce ne sono tanti: uno più uno meno, non farebbe nemmeno notizia. E d’altra parte un colosso come l’azienda di Atlanta non avrebbe perso tempo e soldi per una cosa banale.
Dai comunicati stampa abbiamo appreso che la Coca Cola ha messo in vendita un latte che, prima ancora di essere diverso per caratteristiche nutrizionali, è diverso perché costa di più; per la precisione il doppio degli altri latti. Quindi, un’azienda che fino a quel momento non si era mai occupata del settore lattiero-caseario ha facilmente percepito che il tallone d’Achille del prodotto-latte sta nell’occupazione di una sola fascia di mercato: quella medio-bassa, e quindi che il grande potenziale del mondo caseario è nella fascia medio-alta, in cui non c’è alcun tipo di latte (e mi verrebbe da dire anche di formaggio). Ed è qui la chiave di lettura e la chiave di volta per lo sviluppo del settore.
Da decenni le aziende si fanno una concorrenza spietata verso il basso: aumentare le produzioni, per ridurre i costi e per ridurre i prezzi. Di qui una crisi senza via d’uscita, e conseguenze per il settore che tutti evitano accuratamente di calcolare. Inquinamento dei suoli, abbassamento drastico del benessere animale, latitanza della qualità del latte. Senza tenere conto poi che questo livellamento verso il basso ha attenuato la reazione e la percezione gustativa del consumatore, il quale ormai, nelle sue scelte, non privilegia il gusto, il sapore, i profumi, bensì il colore (il latte per lui deve essere bianco!), vista l’assenza di profumi e la banalità dei sapori.
Qualche settimana fa in una moderna gastronomia della Carnia ho notato con disappunto che la differenza di prezzo fra un Montasio invernale (di stalla) e uno d’alpeggio era solo di 5 euro. Il primo costava 9 euro al chilo e il secondo 14. Una differenza ridicola, se si pensa non tanto al lavoro diverso che sottende ai due formaggi quanto alla differenza sostanziale in termini di complessità aromatica e nutrizionale. In un’elegante gastronomia calabrese, giorni addietro, la proprietaria mi raccontava di quel latte locale che vendeva più caro, definendolo “eccezionale” perché, se non trasportato in una borsa frigo, coagula prima di arrivare a casa.
La gran parte dei caseifici italiani (e non solo: in Libano mi hanno raccontato la stessa storia), quando in primavera gli animali vanno al pascolo, o rifiutano il loro latte oppure sono “costretti” a decolorarlo con la clorofilla. E perché mai? Perché “il latte dev’essere bianco”. C’è stata un’epoca in cui dicevamo che lo sviluppo si fa trasformando l’handicap in risorsa, e invece in questo settore siamo riusciti a trasformare la risorsa in handicap.
Ecco, il problema del settore caseario è l’appiattimento verso il basso della qualità e dei prezzi. Il settore è talmente debole da non avere la forza di cambiare direzione, di fare qualità e di vendere a prezzi più alti. Perché non è vero che i consumatori sono tutti uguali. C’è un’ampia fascia di mercato attenta alla qualità, all’ambiente, e alla salute degli animali. E non saranno pochi euro a fare la differenza, perché non dobbiamo dimenticare che l’alimentazione incide poco meno del 10% sulla spesa degli italiani.
La Coca Cola l’ha capito. Chissà quando lo capirà il settore che di questo vive.
di Roberto Rubino
presidente ANFoSC
(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)
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