Parmigiano: limitare (e migliorare) la produzione a partire dal latte

 29 gennaio 2015 – La palla di neve si è formata e sta incominciando a scendere lungo il pendio. La settimana scorsa abbiamo parlato della Centrale del Latte di Salerno, questa settimana è il Parmigiano Reggiano a tenere desta l’attenzione. Certo, se il “re dei formaggi” piange, allora vuol dire che la situazione è tremendamente seria. Stiamo parlando del formaggio più conosciuto e imitato al mondo, un formaggio non certo di nicchia, con una filiera che conta 3.800 aziende con 50mila addetti, una disciplinare di produzione del latte severo, che vieta gli insilati, una tecnica di lavorazione quasi unica: niente refrigerazione, latte crudo e lavorato due volte al giorno. Eppure il prezzo in pochi giorni è passato da 47 a 35 centesimi al litro. In un supermercato di Eboli il Parmigiano è stato messo in offerta a 7,50 euro al Kg, quando dalle nostre parti le mozzarelle di vacca vengono vendute mediamente a 8,20 euro al Kg. E la mozzarella è un prodotto giornaliero e ricco di acqua.

Il Consorzio di Tutela del Parmigiano ha proposto agli allevatori di ridurre la produzione del 5%, ma ha ricevuto un coro di no. Eppure sembra, anzi è una proposta concreta, che forse potrebbe risolvere il problema. Infatti, perché il Parmigiano è in crisi? È vero che la fine delle quote farà aumentare la produzione europea di latte, ma è pur vero che il Parmigiano è una Dop, quindi, la relazione con il mercato internazionale è minima e marginale perché solo il latte dell’area di produzione può essere utilizzato. Certo, l’aumentata presenza di formaggi freschi, nuovi, a prezzo più contenuto a causa della riduzione mondiale del prezzo del latte potrebbe turbare il mercato del Parmigiano, ma al momento questa è solo una prospettiva di lungo periodo. Invece la crisi del Parmigiano deriva esclusivamente dal fatto che la produzione supera il consumo.
Va pur detto che l’embargo della Russia ha creato un problema non da poco, ma non dobbiamo dimenticare che ogni paio d’anni il Ministero delle Politiche Agricole deve intervenire con bandi (ne abbiamo già parlato) che hanno il solo scopo di svuotare i magazzini degli stagionatori. Quindi la crisi non è un fatto episodico e contingente, ma viene da lontano ed è la risultante di una filiera dopata da interventi che hanno poco a che vedere con il libero mercato.
Quindi bene ha fatto il Consorzio a proporre di ridurre la produzione, anzi, questa è l’unica strada da percorrere. Meglio ancora sarebbe se la proposta riguardasse il latte e non il formaggio. Mi spiego. Invece di ridurre la produzione di formaggio, destinando il latte disponibile ad altri formaggi, allentando in tal modo solo minimamente la morsa del mercato, si dovrebbe abbassare del 5% la produzione di latte delle vacche. In questo modo si otterrebbero tre risultati importanti. La qualità del latte migliorerebbe sensibilmente, perché la riduzione si dovrebbe ottenere abbassando la quantità di concentrati da inserire nella dieta. E siccome i concentrati hanno un effetto di diluizione sulla complessità aromatica e nutrizionale del latte, il miglioramento sarebbe immediato (senza parlare del beneficio che ne riceverebbero le vacche, che saranno meno stressate). E ancora: i concentrati costano molto, quindi la loro riduzione porterà ad una contrazione dei costi. Infine, una diminuzione dell’offerta porterà immancabilmente ad un aumento del prezzo del formaggio, e quindi del latte. E siccome, come diceva Totò, è la somma che fa il totale, alla fine tutta la filiera ne beneficerà.
Invece gli allevatori sono contrari. Come mai? Perché anch’essi sono figli della cultura dell’intensivo, del prezzo unico e del modello unico. Occorre cambiare strada e modello.
Non è mai troppo tardi.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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