La stagionatura dei formaggi ”tipo grana”: una leggenda senza tanta sostanza

 5foto del Consorzio di Tutela del Parmigiano-Reggiano® febbraio 2015 – L’articolo della settimana scorsa ha offerto il destro a più di qualcuno per accusarmi di scrivere “corbellerie”. Visto che la sindrome di Stoccolma è sempre dietro l’angolo, ne approfitto per dare l’opportunità ad altri di accrescere le file dei fan. Questa volta vorrei parlare della stagionatura, o meglio dell’utilizzo quasi esclusivo di questa tecnica come elemento di differenziazione e di caratterizzazione della qualità di un prodotto. Certo, un vino, un prosciutto, un formaggio capaci di invecchiare molti anni lasciano sottintendere che la materia prima da cui si è partiti è certamente di qualità e che l’affinamento ne ha “affinato” – appunto – le caratteristiche organolettiche. Infatti, il punto non è questo.

Contrariamente a quanto succede nel mondo del vino, in quello dei formaggi e dei prosciutti la stagionatura è ormai diventata l’unico elemento distintivo. È il caso dei formaggi a Dop di tipo grana – Grana Padano e Parmigiano Reggiano – che vengono prodotti in un territorio vastissimo, in quantità tali da raggiungere quasi il 50% della produzione italiana e che si presentano al pubblico con l’unico elemento distintivo dell’età: 12, 24, 36, 48, etc.

Un approccio di questo tipo ci deve stimolare almeno due domande. La prima riguarda la materia prima, visto che la tecnica è la stessa: è sempre uguale in tutte le aziende o meglio, le differenze sono tanto inferiori alle differenze che la stagionatura potrebbe determinare da non tenerne conto? Io sono convinto di no, ma il settore ha scelto (sbagliando) di annullare queste differenze, e passiamo oltre, come si suol dire in questi casi: non è vero ma ci credo.

L’altra domanda è più pertinente ed è: ma la stagionatura è tanto importante da determinare una qualità molto diversa e tanto performante? So bene che con gli anni i formaggi evolvono, e che qualcosa cambia, ma questo cambiamento è anche migliorativo e di quanto?

Evidentemente non di molto, se la differenza di prezzo per un anno di stagionatura in più è solo di qualche euro, differenza più dovuta al costo del denaro e della stagionatura che all’aumento della qualità. Io non ho esperienza di formaggi grana, perché vivendo al Sud, si utilizza solo per grattugiare. Ma dovendo scrivere quest’articolo ho provato a degustare un Parmigiano di 24 mesi e uno di 36 di una sola azienda. Ripeto, non ho un vocabolario mentale adatto, però, a parte la solita tirosina e un sentore intenso di cantina (io non so descriverlo altrimenti), quello di 36 mesi non mi ha dato altro.

Io credo che a questo punto non possiamo non porci la domanda: perché il formaggio dovrebbe migliorare? Quali molecole sono responsabili dell’aroma, del bouquet? Per l’esperienza che ho io, i profumi, i sapori, sono dovuti essenzialmente alle erbe diverse, che contengono a loro volta diverse quantità di polifenoli, di  terpeni, di flavonoidi. Queste molecole nel rumine subiscono ulteriori modifiche e tutte poi sono responsabili della complessità aromatica del latte e dei formaggi. Se così è, quante e quali erbe mangiano le vacche del Parmigiano?

Il produttore dei formaggi che ho assaggiato mi ha detto che la quota di fieno (50% della razione) è assicurata per l’80% da erba medica di 2° e 3° taglio e per il 20% da medica di 1° taglio. A parte questa stravaganza di ritenere l’erba di 1° taglio più scadente di quella di 2° taglio e a parte anche che si fa fatica a capire un’alimentazione così sbilanciata verso le proteine, ma cosa vogliamo che la medica apporti per sostenere una complessità aromatica accettabile?

Con questa alimentazione, un consumatore come me, poco esperto di Parmigiano ma molto di altri formaggi, riceve quello che si aspetta: una mono-nota aromatica che, con la stagionatura, invece di evolvere verso altri sentori si consolida, si chiude  e “invecchia”. So che molti esperti, anche amici miei, magnificano la stagionatura di questi formaggi, ma purtroppo tutto questo mi richiama sempre alla mente quella che io considero una debolezza del sistema caseario italiano: la tecnica è responsabile in minima parte della diversità di un formaggio. A quello che mi risulta, il prezzo del Parmigiano non è unico, a volte la differenza è quasi il doppio fra un caseificio e l’altro. E siccome la tecnica è la stessa, vuol dire che c’è una differenza nella materia prima.

Penso a chi distribuisce buoni fieni polifiti alle vacche. E forse anche meno mangime. E allora perché non far capire al consumatore queste differenze, che sono reali, percepibili e rintracciabili? Se io volessi comprare un Parmigiano prodotto da animali che hanno mangiato buoni fieni polifiti come faccio e a chi posso rivolgermi? I formaggi non hanno etichetta, sono anonimi e tutti uguali. Cambia solo il numero del caseificio. Invece ci aggrappiamo alla stagionatura, i cui effetti sono percepibili solo a pochi eletti e comunque il cui differenziale di prezzo è modesto.

Perché non fare come il Comté, che ha due marchi e due livelli di qualità? Si dice che il vino si fa nella vigna, perché allora noi insistiamo sempre e solo sulla tecnica, che incide pochissimo sulla qualità e non sul latte, che incide invece molto? 

E poi ci meravigliamo che siamo in crisi.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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