*Il* problema del latte si chiama Coldiretti. E ora vi spiego il perché

 

 13 febbraio 2015 – La Coldiretti, se non ci fosse, bisognerebbe inventarla. L’ultimo evento organizzato, venerdì scorso – la mungitura delle vacche in dieci piazze italiane – è da manuale. La gran parte dei giornali ha dato grande risalto all’iniziativa, raccontando che “la zootecnica è in crisi”, che “negli ultimi anni sono scomparse quasi 40mila aziende” e che “occorre intervenire, altrimenti altre aziende saranno costrette a chiudere”. Tutto vero, ma a chiederlo potrebbero e dovrebbero essere tutti fuorché Coldiretti.

È pur vero che in questi ultimi tempi a Palazzo Rospigliosi saranno stati distratti dalle notizie sugli abnormi stipendi dei dirigenti (secondo il sito web Dagospia, oltre 2 milioni di euro per il segretario generale), ma tutti sanno che dal secondo dopoguerra, e cioè da una sessantina di anni, la politica agricola è stata in mano alla Coldiretti. Fino a qualche anno fa – dicono i bene informati – la scelta dei ministri agricoli era fortemente influenzata (e usiamo un eufemismo!) proprio da questo Sindacato. Da qualche anno a questa parte, poi, la Politica ha preso possesso del Ministero agricolo, ma nonostante ciò, la Coldiretti continua a farla sempre da padrona. Soprattutto in zootecnia, attraverso l’Associazione Allevatori, un organismo tecnico che riceve fondi, per la quasi totalità pubblici, ma che è gestita in modo privatistico proprio da Coldiretti.

L’Associazione Allevatori ha sempre basato la sua attività sulla selezione e sul miglioramento genetico. L’ottima organizzazione e l’alto livello dei suoi tecnici hanno fatto sì che in pochi anni i risultati fossero elevati. La produzione di latte delle vacche è passata da una media di 30-35 quintali per lattazione agli attuali 90-100. Quindi i livelli produttivi sono più che raddoppiati. Peccato però che gli effetti negativi siano stati e siano tuttora superiori a quelli positivi. I redditi degli allevatori sono quasi a zero, più della metà ha chiuso, la qualità del latte è ai minimi termini, l’età media degli animali da 15 anni è passata a 5, l’inincrocio (conseguenza della consanguineità, ndr) è a limiti di non ritorno.

Ma l’Italia è un grande Paese, dalle mille risorse. Visto che il latte era di bassa qualità, nel 1989 fecero approvare una legge (la n.169/89) che stabiliva che quel latte è di “Alta qualità”; poi, visto che grazie alla genetica e ai grandi finanziamenti di cui beneficiava, il benessere animale e la fertilità si abbassavano drammaticamente, Coldiretti chiese ed ottenne altri finanziamenti per recuperare la fertilità e il benessere. Sempre però attraverso la genetica, innescando così un circuito vizioso infinito: genetica, alta produzione, bassa fertilità, finanziamenti. Se a questo aggiungiamo che in Italia, per cause strutturali, il costo del latte è superiore a qualsiasi altro Paese, si capisce subito che il modello proposto e praticato dalla Coldiretti è esso stesso la causa della crisi della zootecnia.

Invece la Coldiretti cosa propone? Chiede sempre e a gran voce la politica del cappello, del cappello in mano, sempre e solo soldi perché – dice a ogni stormir di fronda – “il prodotto italiano è di gran lunga il migliore e qualcuno lo deve pagare a prezzo giusto; o lo fa l’industria oppure lo Stato deve intervenire”. Non a caso alla fine dello scorso ottobre lo Stato ha dato alla Pianura Padana – non certo alle montagne del Nord o all’Appennino – 12 milioni di euro per aiutare i formaggi Dop (soprattutto Grana Padano e Parmigiano Reggiano) e non a caso ora si apprestano a dare, sempre agli stessi soggetti, gli 8 milioni messi a disposizione finanziaria.

Che bel Paese è l’Italia, dove quelle poche volte che si parla di agricoltura su qualche giornale o canale televisivo, dobbiamo ascoltare un “esperto” della Coldiretti (chissà perché i media intervistano solo loro!) che, per rassicurarci, ci ricorda come solo in Italia si facciamo le cose per bene e che la colpa è sempre degli altri. E mentre i loro stipendi crescono a dismisura, gli allevatori chiudono le stalle. O meglio, non tutti, solo quelli che producono un buon latte, nel rispetto dell’ambiente, dell’animale e del consumatore.

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di Roberto Rubino

presidente ANFoSC

(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)


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