20 marzo 2015 – Il settore lattiero-caseario aspetta fiducioso un pacchetto di
interventi per far fronte alla crisi che, puntuale, non si è fatta attendere. La prima proposta che è venuta fuori sa un po’ di stantio, è un dejà vu, e riguarda il “marchio 100% latte italiano” (chi non lo avesse ancora visto, clicchi qui). Si tratta di un’iniziativa che si configura come privata e facoltativa, ma che viene sostenuta dal ministero delle Politiche agricole, impegnato a difendere il settore lattiero con la fine della stagione delle quote latte. Naturalmente tutte le idee, tutte le proposte sono buone, dipende dagli obiettivi e, soprattutto dall’analisi del problema.
Una malattia si guarisce se si arriva a capire e a eliminare la causa che l’ha determinata. Nel nostro caso qual è la causa, almeno quella principale e determinante? Sappiamo che l’Italia importa oltre il 30% del fabbisogno e che il prezzo del latte estero è più basso di quello italiano perché i costi di produzione in Italia sono più alti. Parte di questo latte viene utilizzato come bevanda, e immesso sul mercato dopo un trattamento termico più o meno intenso (Uht, sterile, pastorizzazione alta, microfiltrato). Una parte importante serve ad alimentare un’industria casearia agguerrita e prestigiosa, orgoglio anch’essa del made in Italy.
Io continuo a pensare che la causa della crisi del settore sia nel considerare il latte tutto uguale, nel miscelare e vendere senza identità, senza legame con il territorio e con il produttore. Se il latte italiano è tutto uguale, allora il consumatore compra il latte che costa meno, quindi non fa nessuna differenza fra il latte italiano e quello estero. La qualità del latte dipende da quello che l’animale mangia. Allora definiamo disciplinari di produzione che segnino la differenza e facciamo in modo che il consumatore ne venga a conoscenza. In quel caso i prezzi devono cambiare, la qualità va pagata. Il vero problema è il prezzo unico, che finisce per favorire chi non produce qualità. E sono proprio questi che continuano a dominare il mercato e a dettare le regole.
Ma ammettiamo per un momento che la causa sia attribuibile al fatto che il consumatore non ha elementi per capire se quel latte è italiano o straniero. Questa lettura presupporrebbe che il consumatore sarebbe disponibile a pagare di più il latte italiano. E perché mai? C’è qualcuno che può scommettere che il nostro latte sia migliore? Anzi. All’estero gli allevamenti utilizzano molto di più i prati, i buoni fieni, il pascolo. Perché in molti Paesi le superfici foraggere sono molto più estese. Per questo costa anche meno il latte. Quindi, se non può essere una scelta di qualità, immaginiamo che il consumatore paghi di più per carità di patria. E se la stessa regola valesse per i prodotti che l’Italia esporta in tutto il mondo? Sappiamo che l’export agroalimentare è un fiore all’occhiello per l’Italia. Lo difendiamo in questo modo? E poi come la mettiamo con le aziende italiane che utilizzano latte straniero – e sono tante – per produrre formaggi di qualità? Gli diciamo che non sono gradite, che dovrebbero comprare solo latte italiano (che non c’è), oppure che devono avere due linee di produzione, una con latte italiano e una con latte straniero?
Un gran pasticcio che non cambierà niente, anzi, sposterà solo in avanti il problema. Nel frattempo continueranno a chiudere le aziende virtuose, che producono un buon latte, mentre si rinforzeranno quelle intensive, che tanti problemi provocano al territorio, agli animali e al prodotto.
20 marzo 2015
Roberto Rubino
presidente ANFoSC
(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)
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