30 luglio 2016 – I prezzi del latte ormai si vanno allineando e stabilizzando verso il basso, ma con squilibri e anomalie tutti italiani. Sono stato recentemente a visitare un po’ di alpeggi prealpini. Praterie a perdita d’occhio, di un colore che tendeva a virare dal verde verso il giallino perché ormai si va verso la fase calda della stagione, vacche di tutti i colori – una volta trovavo che fosse segno di modernità quando vedevo un gregge uniforme, ora sono contento q uando vedo una mandria eterogenea perché percepisco che da quelle parti la genetica ha fatto pochi danni – che si spostano alla ricerca di specifiche piante e del posto dove meglio si può passare il tempo.
Entriamo nelle diverse baite e ci facciamo una chiacchiera con gli allevatori. Tutti più o meno ci dicono la stessa cosa: il prezzo è troppo basso e non si può continuare. Le baite sono tutte molto belle, struttura in pietra, ben conservate, ma due cose ne attenuano la bellezza: la scarsa pulizia e i silos dei mangimi vicino al locale di mungitura. Lasciamo stare l’ordine, la pulizia, non appartiene alla cultura del mondo zootecnico, per noi stalla è sinonimo di letame, di polvere, di residui di alimenti sparsi dappertutto. In alcuni paesi intorno alle stalle si posizionano fiori, alberi, ma tant’è! Invece la questione dei mangimi è molto più carica di significati e di risvolti.
Ho chiesto: perché dovete dare i mangimi, visto che qui c’è tanta erba da bastare per far produrre il latte che attualmente si produce? La risposta è sempre la stessa, potevo pure evitare di farla: per mantenere la curva di lattazione per tutto il periodo dell’alpeggio. E visto che il latte si paga sempre a quantità e non a qualità, l’ipotesi può anche essere sostenibile, perché, a parte quel caso specifico in cui l’erba era abbondante, in genere da luglio in poi si va incontro a periodi che possono essere anche molto magri. Un poco di integrazione potrebbe anche starci. Ma un poco e soprattutto di che tipo?
Ho visto i cartellini dei mangimi che usavano: per vacche da latte stabulate, quindi con integratori, vitamine e cianfrusaglie del genere. È chiaro che i malgari sono vittime privilegiate di venditori di tutti i tipi. Sono praticamente lasciati soli sugli alpeggi, l’assistenza tecnica è ormai allo sbando, le organizzazioni professionali pensano a bloccare il latte che viene dall’estero; solo il raccoglitore del latte e qualche venditore fanno loro visita. Però, con quei pascoli ricchi di decine, forse qualche centinaio di erbe diverse, ciascuna contenente vitamine, antiossidanti, polifenoli, flavonoidi in quantità e diversità tali da rendere più che completa la razione alimentare, a cosa servono gli integratori? Certo, quei mangimi fatti con chissà quali semi sono talmente scadenti da avere bisogno di sostegni, ma allora, se proprio non possiamo evitare i mangimi, perché non dare agli animali cereali e legumi semplici? Avena, orzo, favino, piselli, grano, visto che di questi tempi quest’ultimo costa molto poco. Troppo semplice vero?
Quindi, potremmo avere un latte di qualità incredibile, invece l’allevatore, anche a causa di un prezzo mortificante – parliamo di 30 centesimi al litro, più basso del prezzo che in pianura percepiscono gli allevamenti stallini – ci mette del suo per abbassarne la qualità. Quel latte poi va in caseificio, non molto distante dagli alpeggi, potrebbe essere lavorato crudo, ma il casaro non si fida, avrebbe bisogno di analisi continue della carica batterica, perché l’igiene a monte non è delle migliori, e allora pastorizza e utilizza i fermenti. Rimane comunque un grande formaggio, però i due attori della filiera – perché la vacca e i pascoli il loro dovere l’hanno fatto alla grande – danno il loro contributo per contenerne la qualità.
Vai allo spaccio del caseificio e ti aspetti dei prezzi accettabili, invece sono disarmanti: meno di dieci euro. Una mozzarella piena d’acqua e fatta con latte di animali alla stalla, pastorizzata e con acido citrico, costa di più. Un qualsiasi formaggio industriale non si vende a meno di 20 euro il chilo. Il casaro dice che lui ci sta nei costi e ci guadagna anche. Il consumatore è contento perché paga una miseria un prodotto straordinario. Quindi ci rimettono solo l’allevatore, che di questo passo chiuderà, e la vacca, che potrebbe mangiare bene e invece è costretta, anche, a mangiare quella robaccia.
Quando penso allo sviluppo e a quello che serve per animare un territorio e prendo atto di queste situazioni, allora mi convinco sempre più che lo sviluppo è recuperare il gap che c’è fra l’esistente e il potenziale di quell’area. Sui quegli alpeggi si potrebbero fare grandi formaggi, di livello incredibile, che si potrebbero vendere a prezzi due- tre volte superiori. Basterebbe una assistenza tecnica mirata, fatta da persone capaci e ben formate. Mi rendo conto però che lo sviluppo non si fa con i condizionali, ma con il presente. La guerra si fa con i soldati che hai, e noi, si sa, più che di soldati abbiamo avuto sempre pessimi generali.
30 luglio 2016
di Roberto Rubino
presidente ANFoSC
(Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo)
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