Il formaggio traina le vendite nei discount: è un segno della crisi, ma voi non ci pensate

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L’Italia vive una crisi economica sempre più seria, che tocca strati sempre più ampi della popolazione, eppure c’è chi analizzando la ripresa delle vendite dei discount pare guardare da un’altra parte. Parlare di riduzione del potere d’acquisto delle famiglie appare come un tabù, e così – allo stesso modo in cui si dà dell’anziano al vecchio, del portatore di handicap al disabile e del non udente al sordo – si guarda altrove per offrire una prospettiva non troppo cruda, forse – chissà – per evitare di accrescere gli stati d’ansia di molti.

L’Italia, si sa, è sempre meno ricca, il numero dei poveri aumenta, i ricchi sono sempre più ricchi, ma qualcuno evita di parlarne, per non urtare la suscettibilità dei benpensanti. Accade così che le accresciute vendite registrate dai discount (+3,8%) nella prima metà dell’anno, a spese di ipermercati, supermercati e piccoli esercizi di prossimità (-0,5%) vengano interpretate con ragioni secondarie se non del tutto fittizie: il “trading-up” di questo canale distributivo, si legge, sarebbe “guidato da un mix di fattori”, dalla “rimodulazione dell’offerta, con una maggior presenza delle marche industriali”, “all’ampliamento dell’assortimento”, ma anche da “un uso più ampio delle leve di comunicazione promozionale”.

“In questo processo”, spiegano i sedicenti esperti, “giocano un ruolo trainante sia le marche industriali, che vedono crescere il loro peso sulle vendite (in particolare i grandi brand), sia alcune famiglie di prodotti, che vedono aumentare in modo significativo il loro giro d’affari, come i formaggi”.

Ecco, appunto, i formaggi. Ma quali formaggi? “Nell’anno finito a luglio 2018”, spiega Assolatte, “nei discount presenti in Italia le vendite di formaggi confezionati sono aumentate di 24,7 milioni di euro” facendone la seconda macrocategoria per crescita assoluta, dopo la frutta confezionata a peso imposto”.

“La crescita delle vendite”, conclude l’associazione di categoria degli industriali lattiero-caseari, “è un dato significativo che conferma la passione degli italiani per i formaggi, il loro insostituibile ruolo nell’alimentazione e la loro crescente presenza nel carrello della spesa”. Se andassimo a chiedere un commento su questa tematica agli allevatori (come mai i giornali non li intervistano mai?) che conferiscono latte alle industrie, le risposte sarebbero due: “lavoriamo in perdita, perché i costi di produzione aumentano, e l’industria ci paga sempre meno” e “chi detta legge nel settore è forte della possibilità di acquistare latte all’estero, in Paesi in cui, per varie ragioni, i costi produttivi sono di molto inferiori ai nostri”.

Tirando le somme del discorso, la crisi morde ai polpacci la gran parte delle famiglie italiane. Chi va al discount lo fa per spendere il meno che può, e – ne siamo certi – di fronte a due prezzi diversi per due prodotti similari, la scelta cade, il più delle volte – inevitabilmente – sul prezzo più basso. Il fallimento di tante azioni mediatiche per affermare una presunta superiorità di quel “made in Italy” (quello dei mangimi, globalizzato dai medesimi, ndr) è tutto qua, incorniciato in una prospettiva in cui, tra il consumatore che non ce la fa ad arrivare alla fine del mese e l’allevatore che non sa più a che Santo votarsi, emerge la figura dell’industriale, che pare ridere beffardo. Per lui, che il latte sia italiano o estero non cambia nulla. Per lui è sempre festa. Perchè in un mercato che dimostra di recepire prodotti di ogni genere e prezzo, le vendite e il profitto sono assicurati tanto dai pochi ricchi, che in genere non badano a spese, quanto dai moltissimi meno abbienti, che in ogni caso un po’ di formaggio, da latte italiano, ma anche straniero, alla fine lo comprano. Magari andando al discount.

19 novembre 2018