Il caffè come non lo avremmo mai voluto vedere, ancora una volta è presentato al mercato mondiale da Starbucks, dopo che una larga parte delle proposte offerte a partire dalla sua fondazione (1971) ad oggi ha trovato spazio e si è radicata nei menù degli oltre 28mila punti vendita presenti in 78 Paesi, nei sei Continenti. Dicevamo, l’ultima creazione del colosso statunitense – il Juniper Latte – sfrutta ancora una volta il termine italiano al posto del più internazionale ma meno “esotico” “Milk”, altro non è che un latte (latte dei mangimi, ovviamente) riscaldato con il vapore, a cui viene aggiunto l’espresso della casa e lo sciroppo di ginepro.
“Questa bevanda”, come spiega l’azienda nella scheda tecnica pubblicata giorni fa, “ha un leggero sapore di pino, con deliziose sfumature di agrumi”. Inoltre, aggiunge l’azienda di Seattle sul proprio sito web, “copriamo questo latte con schiuma vellutata e accentuiamo il sapore notevole con una spolverata di zucchero di agrumi di pino”.
Ricapitolando, ecco gli ingredienti del “Juniper Latte”: latte, per l’appunto, e poi: caffè espresso, sciroppo di ginepro (zucchero demerara, zucchero di canna, aroma naturale non meglio precisato, sorbato di potassio, acido citrico) e, infine, zucchero di agrumi di pino, (zucchero, zucchero a velo, amido di mais, e di nuovo aromi naturali, spezie, colorante ma non si sa quale, alga spirulina, zucca, mela, cavolo rosso e curcuma).
Se da un lato il quotidiano Usa Today presenta questa nuova proposta invernale con una tiepida cronaca di Kelly Tyko, Elise Taylor, sul modaiolo Vogue, riserva una accoglienza glaciale alla nuova proposta dell’azienda di Howard Schultz (“le note di pino e agrumi sono palpabili… erbacee e graffianti. Un po’ come se tu fossi andato da un farmacista del XVI secolo per la tua tazza di caffè del mattino”), tant’è che – conclude la Taylor – se mai lo dovesse berne di nuovo, chiederà al barista di versarlo “su una buona dose di ghiaccio”.
Ad accogliere il Juniper Latte in maniera positiva, in Italia, ancor prima del pubblico che dovrebbe testarlo presto nei 2.300 metri quadrati del suo Reserve Roastery di piazza Cordusio, a Milano (inaugurato lo scorso 3 settembre) è per ora un osservatore tutt’altro che disinteressato del nostro scenario produttivo, vale a dire Assolatte.
In un articolo firmato da Vito de Ceglia e apparso lunedì scorso sul sito web Informacibo sono raccolte le speranze dell’associazione degli industriali del latte italiano, che a fronte di un calo verticale delle vendite (“…storicamente il consumo pro-capite di latte fresco in Italia era di 56 litri l’anno, negli ultimi 5 anni è sceso del 25-30%”) vorrebbero che qualcosa o qualcuno ribaltasse, come per magia, una situazione che a dir poco appare grave. E incontrovertibile.
A dispetto delle indicazioni della Dieta Mediterranea – che troppo spesso viene ricordata senza rammentarsi di quanto il latte (dei mangimi, bianco e insapore) sia cambiato da quello delle “origini” (il latte del fieno e dell’erba, giallo e gustoso) – gli italiani si stanno disaffezionando da quella che l’industria chiama “la bianca bevanda”, per l’appunto, un po’, come ricorda l’articolo, per il calo delle nascite (“…visto che non ci sono più figli, ci sono sempre meno consumatori”, sottolinea de Ceglia), un po’ “per i cambiamenti culturali e di mercato: i vegani”, prosegue il pezzo, e poi “la paura di ingrassare, le mode del momento e la rinuncia alla prima colazione”. “Tutti fattori che”, conclude de Ceglia, “uniti all’aumento dirompente delle intolleranze alimentari, hanno inciso sul calo del mercato del latte fresco nel nostro Paese tra il 2014 e il 2017 da 637 mila a 565 mila tonnellate all’anno”.
Per scongiurare che questo trend, se mantenuto, porti l’industria del latte a quota 470 mila tonnellate nel 2020 (la proiezione è tanto severa quanto realistica), servirebbe un’inversione di tendenza assai concreta (tornare al buon latte del fieno? ma quando mai!?). Oppure qualche miracolo.
Starbucks non può fare miracoli – La speranza appare quindi appesa a un filo: uno dei fili della ragnatela che proprio Mister Schultz sta tessendo da quarantasette anni a questa parte in giro per il mondo, dopo aver compiuto le prime mosse proprio dall’Italia agli Stati Uniti, esportando e radicando nel suo Paese un’idea globale di caffè e di caffetteria che ha poi fatto il giro del mondo, replicando se stessa in un’infinità di luoghi, all’interno di culture e di spazi che allo stesso tempo sono differenti e ora uguali. Irretendo, se ci è concesso il termine, milioni di persone in un approccio e in un consumo di caffè e di latte che tutto il mondo ormai chiama proprio “latte” e non più “milk” o “leche” né giammai “lait”. Un “latte”, arricchito così di una vena di esotismo italico che, a partire dagli Stati Uniti – e facendo il giro del Mondo – è parte rilevante di quella formula di successo.
Il miracolo per Assolatte dovrebbe arrivare da lì, quindi, per un’Italia che produce un latte che proprio negli ultimi cinquant’anni ha perduto pressoché tutto, a causa delle proprie scelte: a partire dalle stalle in cui viene prodotto con sempre meno fieno e sempre più mangimi. Ha perduto il colore, che si è fatto via via sempre più bianco – per il divieto ormai imposto a quasi tutti gli allevatori, di somministrare erba fresca o secca (fieno) – e ha perduto la gran parte dei suoi nutrienti, che in assenza d’erba e fieno sono largamente scomparsi dal latte, o per meglio dire da quel tipo di latte. Sempre più pallido, sempre più insapore, sempre meno appassionate. E sempre più problematico.
Ce lo confermano i molti che, tornati al latte vero, al #lattederba, come amiamo chiamarlo noi – qui e nei social, a supporto delle operazioni di rinascita che il mercato del latte sta vivendo – testimoniano che il buon latte da animali al pascolo, specie se da vacche caratterizzate da caseina A2A2 non dà problemi di intolleranza, e si riesce a bere serenamente, come una volta. E a digerirlo.
Che dire quindi, leggendo che Assolatte spera che il fenomeno Starbucks – più di 28mila caffetterie nel mondo; una appena in Italia – porti ad un’inversione di tendenza nella disaffezione degli italiani verso “quel” latte? Che sarebbe molto più semplice, pur nella sua complessità, aiutare una parte del settore a riconvertire dai mangimi al fieno, e dal fieno all’erba nella stagione più propizia, ove possibile. Non certo in assenza di adeguate estensioni di pascolo, non certo ovunque.
Assisteremmo ad un cambio radicale del paradigma-latte in cui ogni consumatore avrebbe il suo prodotto, in una prospettiva in cui una parte del mercato ritroverebbe fiducia in quel liquido “giallo”, figlio del betacarotene che è nell’erba. E vettore di un benessere fatto di antiossidanti, vitamine, grassi insaturi e coadiuvanti del sistema cardiocircolatorio. Un latte che torni ad impossessarsi delle proprietà che la logica e il sistema industriale hanno cancellato dal latte, a suon di mais insilato fermentato, a colpi di unifeed e di integratori.
Il latte industriale non verdrà alcun rilancio – Riuscirà quindi Startbucks, si chiedeva l’articolo, a rilanciare i consumi? La risposta è no, assolutamente no, per l’irrilevanza che l’Italia ha nel panorama mondiale di quell’azienda.
Riuscirà Assolatte, ci chiediamo noi, a cambiare una parte del latte, a farlo tornare da bianco a giallo, da povero a ricco, da vettore di beta-caseine A1A1 a veicolo di beta-caseine A2A2? No, altrettanto decisamente no.
Troppe le distanze tra i due mondi zootecnici, troppi gli interessi in gioco. Se solo si guarda agli esempi di chi ha riconvertito in questi ultimi anni nel nostro Paese, da zootecnia intensiva a zootecnia estensiva, la prospettiva non può essere accettata dal sistema latte industriale: aziende che hanno letteralmente salvato la pelle puntando alla qualità reale della materia prima (e confezionandola, o trasformandola in proprio, liberandosi dalla schiavitù industriale) sono passate da oltre cento vacche ad appena trenta capi in lattazione; gli animali hanno acquisito una longevità invidiabile (da cinque a oltre quattordici anni le aspettative di vita, grazie all’alimentazione naturale ad erba e fieno); i veterinari non sono più in azienda a presidio pressoché costante di animali malati oggi di zoppie, domani di mastite o di acidosi. I tecnici non hanno più molto da fare con le loro soluzioni pronte per ogni problema, per ogni evenienza. E il sistema-latte si è sgonfiato, in quelle poche aziende che hanno riconvertito si è dissolto come neve al sole. Sparito, liquefatto. E l’economia di quelle aziende, libero da gravami evidentemente inutili in un sistema produttivo rigenerato, hanno ripreso a volare.
Un cambiamento è possibile – Quindi, il cambiamento? Ci sarà un cambiamento possibile, che possa rigenerare il mercato, in proiezione futura? Certo che ci sarà, ed in parte si è già manifestato, seppur su piccola scala: con le 20 bottiglie a settimana di latte fieno che due anni fa venivano vendute in un negozio “Natura Sì” di Roma, che oggi – a suon di passaparola – sono diventate 70, laddove la nostra redazione organizzò una giornata di sensibilizzazione sui latti a confronto “erba vs. mangimi”, evento rilanciato non solo allora (ottobre 2016) da Qualeformaggio ma a pochi giorni di distanza dai blog Il Pasto Nudo (Sonia Piscicelli) e La Natura delle Cose (Gae Saccoccio). E con i 900 litri a settimana del latte Salvaderi venduti nella città di Roma a fine maggio, che a colpi di post su Facebook e grazie alla buona distribuzione, operata dalla Europast di Ariccia, oggi sfiorano i 3mila litri, ogni sette giorni.
Una cosa è evidente, quindi: per quanto piccola, una parte dei consumatori sempre più ampia, sensibile e documentata, sta capendo la qualità reale e la sta premiando attraverso gli acquisti. È la direzione in cui bisogna spingere per cambiare in qualche modo – anche se in piccola, piccolissima parte – un mercato che è in cinquant’anni di delirio produttivista è imploso non per cause e fattori esterni – o non solo per quelli – ma a seguito principalmente dei suoi stessi errori. A ciascuno il suo latte, quindi, e buona salute a chi ha scelto di produrre, di bere e sostenere il buon #lattederba!
3 dicembre 2018