
Come se non bastasse il danno all’ambiente, agli animali e ai consumatori europei dovuto alla produzione e la commercializzazione di un latte sempre più impattante e insalubre, i produttori intensivi del Vecchio Continente hanno trovato il modo di esportare i loro problemi anche in Africa, per di più aggiungendo una componente truffaldina, tanto per lucrare nell’illecito.
A partire dal 1° aprile del 2015, data della fine del regime delle quote latte, alcuni grandi gruppi commerciali, si sono sfidati nell’esportazione delle loro sovraproduzioni, concentrandosi – a quanto pare – sulla peggio qualità possibile, pagata a prezzi stracciati, per produrre un latte scremato addizionato poi di grassi vegetali (olio di palma), per portare in Africa Occidentale un prodotto alternativo ed economico rispetto ai latti prodotti localmente.

Ne è scaturita una situazione catastrofica per i produttori e gli allevatori africani, che non possono competere con una siffatta concorrenza sleale. Il fenomeno, di cui si erano avute le prime avvisaglie già nel 2015, ha acquisito uno spessore significativo in coincidenza del buon andamento del mercato del burro, registrato a più riprese nel 2017 e 2018.
Una situazione che è stata denunciata a Bruxelles il 10 aprile scorso da una delegazione di allevatori europei ed africani, provenienti da Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Senegal, che hanno raggiunto il quartier generale dell’UE chiedendo il rispetto delle regole del commercio (divieto di dumping), una produzione europea sostenibile, e le necessarie garanzie di sopravvivenza delle strutture agro-zootecniche locali.
Nel corso della giornata di incontri e nei raduni nelle strade di Bruxelles in molti hanno fatto i nomi di alcune delle maggiori aziende che sarebbero implicate in quello che si configurerebbe come un vero e proprio scandalo, o – per meglio dire – di una truffa: Lactalis (Francia), Nestlé (Svizzera), Arla (Danimarca), Milcobel (Belgio) e molti altri: “le multinazionali lattiero-casearie europee”, è stato sottolineato, “hanno investito molto in Africa occidentale negli ultimi tempi, per lo sviluppo di siti di ricondizionamento del latte in polvere proveniente dall’Europa”. Siti che quasi mai rappresentano un’occasione di sviluppo economico e sociale per le popolazioni locali, in quanto forniscono pochissimi posti di lavoro.
Le cifre di una vera e propria truffa – Il simil-latte europeo viene venduto in Africa a meno di 200 franchi CFA (franco Comunità Finanziaria Africana, pari a 0,30€/litro) contro i 400 franchi CFA (0,61€/litro) del latte vaccino locale. E questo per una buona ragione: l’olio di palma, che a sua volta contribuisce alla massiccia deforestazione, costa dodici volte meno del grasso del latte.
A questo si aggiunga che la maggior parte dei consumatori africani sono ignari di tutto ciò, non essendo indicata la composizione del prodotto. Questo per via della mancanza di normative in materia di etichettatura e di comunicazione ingannevole.
A rivendicare i propri diritti, i delegati africani hanno sottolineato come “questa miscela di grassi vegetali, come tutti i succedanei, non ha le stesse qualità nutrizionali (acidi grassi, minerali, vitamine) del latte vaccino intero. I consumatori sono quindi ingannati e corrono rischi nel consumo quotidiano di un prodotto ritenuto basilare nell’alimentazione, soprattutto dei bambini e dei ragazzi”.
Per contrastare questo fenomeno, oltre a richiedere un intervento legislativo da parte della Commissione Europea, gli allevatori hanno fatto leva sulla disponibilità di associazioni come Oxfam Belgio, Sos Faim, Veterinari Senza Frontiere e European Milk Board per lanciare una campagna mediatica basata su uno slogan – “Non dobbiamo esportare i nostri problemi” – che suona come un invito alle big del settore coinvolte nella vicenda.
Per ulteriori informazioni su questa vicenda, clicca qui e leggi cosa ne dice lo European Milk Board.
29 aprile 2019