Nel nostro Paese lo sanno anche i sassi, oramai: a causa della contraffazione agroalimentare, l’Italia perderebbe 60 miliardi di euro ogni anno. Questo perché nel mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina, e – così pare – anche alla Cina, esistono centinaia o forse migliaia di aziende che quotidianamente immettono sul mercato tonnellate di Parmesan, Combozola e Reggianito. E che così facendo sfruttano, a detta di molti, quella dimensione truffaldina per cui è stato coniato il termine di “italian sounding”. Il consumatore medio, quindi, in buona fede e in qualche parte del mondo, comprerebbe ogni giorno un’improbabile Monzarella (con la “n”, ma quasi non si vede) pensando di acquistare Mozzarella, o Parmesao per Parmigiano.
Ecco, se di fronte a una tale e risibile questione ognuno di noi dovesse pensare di essere definito “consumatore medio”, ci sarebbe quasi da offendersi, tanto diversi sono i prodotti “taroccati” dagli originali. Per di più spessissimo creati per i mercati di produzione e circolanti a prezzi largamente più abbordabili rispetto ai nostri da esportazione: in Brasile per i brasiliani, negli Stati Uniti per gli americani e così via. Prodotti e produttori che sono arrivati a commercializzare determinati articoli, e questo va detto a chiare lettere, non con l’intenzione originaria di operare degli illeciti, bensì nella legalità più piena (i marchi di protezione – Dop, Igp, Stg – sono nati in Europa come strumento europeo di tutela, da sempre inefficaci fuori dai confini dell’Ue, ndr). Ma chi sono poi questi “falsari”, questi “criminali” della falsa mortadella e dello stracchino fuorilegge? Nel 90% dei casi si tratta di italiani, o meglio di figli di italiani, emigrati meno di un secolo fa per cercare fortuna oltre Oceano, portando con sé, oltre alla retorica delle valigie di cartone, non poche capacità estranee alle terre in cui andavano a vivere. Delle capacità magari comuni nel loro Paese di origine, acquisite chi nel caseificio di papà, chi nella macelleria del vicino di casa.
Per decenni hanno potuto produrre lecitamente ciò che volevano, nella piena legalità dei loro rispettivi Paesi, attivando nel tempo delle consuetudini sociali incontrovertibili, attraverso le quali il Parmesan – solo per fare un esempio – si trova di fatto ad essere oggi un prodotto a cui il mercato statunitense e canadese sono abituati, né più né meno come molti prodotti italiani sono consuetudine sulle tavole del nostro Paese. Pensate: esistono generazioni di cittadini statunitensi che hanno interiorizzato determinati prodotti con determinati nomi, semplicemente perché all’atto della loro nascita, quei formaggi, quei salumi, quegli sfizi di gastronomia, erano già presenti nelle loro case, accompagnandoli nel loro diventare uomini. Allo stesso modo in cui dei piccoli Smith e Williams avevano per compagni di classe dei Cuomo e dei Giuliani o De Blasio che poi sarebbero diventati a pieno titolo governatore dello Stato e sindaci del Comune di New York. Non italiani, quindi ma figli di italiani, personaggi pubblici di cui qualsiasi cittadino statunitense riconosce le origini, sapendo distinguere quelle dall’appartenenza.
Vedremo quindi nei prossimi mesi come andrà a finire il braccio di ferro attualmente in corso tra Europa e Resto del Mondo, anche se le posizioni prese da alcuni Paesi (la Cina e il Canada, a quanto sembra) sarebbero più aperte al dialogo di altre. Probabilmente alla fine ci si troverà ad una contesa tra pochi Paesi: l’Italia di certo – e la Francia, la Spagna, la Grecia, forse ancora sotto una logora bandiera di Unione Europea – e Stati Uniti, con qualcuno o molti che si chiameranno fuori per il timore di ritorsioni sul fronte dell’esportazione, secondo un copione particolarmente collaudato dal Governo statunitense.
Il flop delle Dop
Sullo sfondo di questa querelle, non va poi persa di vista l’inefficacia, più e più volte dichiarata negli stessi ambienti istituzionali, dei marchi di protezione: pur incontrandoli da oltre vent’anni in ogni dove, i consumatori non li hanno ancora recepiti nel modo in cui il sistema che li ha creati avrebbe voluto. In sostanza l’elemento del maggior costo è arrivato più forte e più chiaro di quello di una qualità superiore, non sempre reale né palese, per cui l’occhio li vede e la mano troppo spesso non li coglie, dirottata altrove da qualche umanissima ragione.
Più tutele per i produttori che per i consumatori
Tornando allo scenario internazionale venutosi a creare, quelle in corso poi non sono le schermaglie tra gli Stati che rappresentano i cittadini, ma tra le industrie e le economie dei Paesi. Perché, a guardar bene, ai consumatori la cosa riguarda ben poco. Basti pensare a quanti prodotti la stessa industria ha letteralmente sottratto al mondo rurale, piegando metodologie produttive ancestrali alle necessità delle mega-produzioni, facendo nascere il latte e le carni destinati a prodotti Dop in stalle di dimensioni e pratiche allevatoriali inconcepibili solo trent’anni fa. E senza che nessun rappresentante dello Stato o di confederazione agricola abbia osato mai – e sottolineiamo mai – obiettare alcunché.
No alla “Monzarella”, sì alla “Mozzarella” a tranci
Per non parlare poi di quanta “mozzarella-per-pizza” siamo costretti tutti i giorni a ingurgitare (sentendola denominare dal pizzaiolo per quel che non è) noi consumatori e cittadini italiani e del mondo intero, solo perché quella mozzarella è prodotta, col beneplacito dell’Unione Europea, nel nostro stesso continente. Contro quella nessuno ha mai mosso un dito. Dov’è la truffa, quindi, al di là dell’Oceano, o forse sotto i nostri occhi?
24 marzo 2014
Per sapere cosa se ne dice negli Usa, ecco a voi due articoli illuminanti (in lingua inglese, qui e qui; buona lettura!)