24 luglio 2009 – Un governo che agisce da mesi a colpi di decreti non poteva non risolvere in casa propria e a modo suo l’annosa questione della tracciabilità dei prodotti lattiero-caseari. È così che arriva, senza troppa sorpresa e con qualche dissenso, la soluzione agli annosi problemi che vedono da anni gli italiani mangiare formaggi che di “made in Italy” hanno l’aspetto e il nome, ma non la sostanza.
Ed è così che, dopo essere apparsi fianco a fianco in decine e decine di telegiornali nazionali per almeno due giorni, arrampicati alle scalette di autobotti estere in transito al Brennero, e incorniciati da un mare di bandiere gialloverdi, il ministro Luca Zaia e il presidente di Coldiretti Sergio Marini si ritrovano ancora una volta in compagnia l’uno dell’altro sulle pagine dei giornali di mezza Italia: l’uno a decretare come si andrà avanti d’ora in avanti secondo la regola della tolleranza zero, l’altro a spellarsi le mani per tanti applausi in cui sembrano scaricarsi le rabbie e le frustrazioni del “popolo che alleva”.
D’ora in avanti chi vorrà produrre formaggi utilizzando latte, latte in polvere, cagliate, caseinati e quant’altro di origine straniera avrà l’obbligo – finalmente! – d’indicarlo in etichetta, e non per una disposizione comunitaria che non arriva e forse mai arriverà, ma perché in mancanza di quella il ministro leghista e interventista ha deciso di metterci una toppa e la sua firma.
Ma cos’è che stabilisce il decreto Zaia sulla tracciabilità del settore lattiero-caseario? Vediamolo quali obblighi imporrà e perché dovrebbe far penare (il condizionale è d’obbligo, conoscendo i soggetti chiamati a rispettarlo, ndr) i non pochi industriali che in questi anni ci hanno propinato (secondo i dettami del presidente di Federalimentare Giandomenico Auricchio) formaggi che di italiano hanno solo il luogo di trasformazione e le apparenze.
Il decreto, che secondo le previsioni sarà firmato dal ministro Zaia entro la fine di luglio, riguarda il latte e i semilavorati per l’industria casearia e il latte Uht (a lunga conservazione) e si propone di tutelare i consumatori, obbligando le industrie che continueranno a produrre con materia prima o semilavorati esteri a indicare questo in etichetta. È facile prevedere che una parte di tale produzione riprenderà a utilizzare latte italiano (magari aumentando un po’ i listini), che un’altra sceglierà di radicarsi nel segmento basso del mercato (inevitabilmente riducendo i listini) e che forse (fatta la legge gabbato lo santo) qualcuno (o molti) s’ingegnerà nel trovare nel decreto gli spiragli atraverso cui cui tentare di aggirare l’ostacolo per proseguire nei propri intenti.
Nell’annunciare il decreto, il ministro non ha perduto l’occasione per sottolineare «che il nostro Paese produce undici milioni di tonnellate di latte, ma ne importa circa otto» e che attualmente «il sistema di etichettatura previsto dai decreti ministeriali del 27 maggio 2004 e del 14 gennaio 2005, riguarda solo il latte fresco e i formaggi Dop», mentre il consumatore non è tutelato e non ha garanzie circa l’uso di milioni di tonnellate di latte e prodotti derivati importati: 441mila tonnellate di latte Uht (Ultra High Temperature) e Esl (Extended Shelf Life), a fronte di un milione di tonnellate prodotte nel nostro Paese, mentre sono 690mila le tonnellate di formaggi e latticini non Dop e 442mila ton quelle importate.
L’intervento del ministro Zaia appare come l’unica e ultima via d’uscita rimasta dopo il mancato accoglimento delle richieste a tutela degli allevatori italiani da parte del Commissario all’agricoltura dell’Ue Mariann Fisher Boel. «Contestiamo», ha detto risoluto Luca Zaia in conferenza stampa, «le scelte della Commissaria Fischer Boel perché sarebbero misure che rischiano di metterci fuori mercato».