Fiavè è il caseificio simbolo della miopia industrialista che ha puntato tutto sull’economia di scala e ha trascurato la qualità e il legame con il territorio. È la realtà più importante del settore in Trentino, con quasi cento dipendenti e tre stabilimenti.
All’inizio dell’anno era dovuta intervenire la Provincia di Trento, tramite Cooperfidi e in collaborazione con le Casse Rurali, per salvarlo con un’operazione di trasferimento della proprietà degli immobili e di leasing da 22 milioni di Euro relativa alla proprietà immobiliare dei tre stabilimenti del caseificio. Nonostante l’operazione di salvataggio, la vita del caseificio continua ad essere travagliata con dimissioni di soci e le annunciate (ma poi rientrate) dimissioni del direttore e del presidente (in contrasto tra loro). Qualche mese fa 30 produttori minacciavano di uscire in caso di abbandono del presidente.
Nel frattempo si era annunciato che le produzioni di latte bio della Val Rendena sarebbero state “declassate” al prezzo del latte convenzionale (per ora la cosa è rientrata). Ma il piano industriale non decolla. Si era annunciato lo spostamento della produzione di Grana Padano da Pinzolo a Fiavè, poi smentita; si è proclamato che al polo di Villa Lagarina si doveva produrre solo yogurt (e si è tornati a produrre Grana Padano).
Intanto, però la produzione di yogurt si è ridotta drasticamente e il latte “da fieno” della Val di Ledro è stato declassato a latte “alimentare”. Una differenza non da poco, che comporta una riduzione del prezzo riconosciuto al produttore da 38 a 31 cent al litro.
La Val di Ledro dove tutt’ora si pratica l’alpeggio e lo sfalcio dei prati vede così il proprio latte equiparato a quello di Fiavè dove si usa massicciamente l’insilato di mais.
E così sei aziende della Val di Ledro che rappresentano il 90% dei conferimenti locali hanno deciso di abbandonare la barca che fa acqua. Una decisione che arriva dopo pochi giorni dalle dimissioni (questa volta probabilmente effettive) del Direttore che non è riuscito a imporre la fusione con Latte Trento.
Un modello basato sulla quantità e costi elevati di trasporti e distribuzione
La crisi inarrestabile del caseificio-simbolo dell’industrializzazione casearia alpina deve far riflettere. Le soluzioni di “razionalizzazione” adottate vanno – come si è visto – a penalizzare le specificità produttive locali e la qualità e a spingere sull’accelleratore di una politica di “poli” (qui faccio il burro, là lo yogurt, là ancora la mozzarella – noto prodotto tipico trentino) che implica ulteriori flussi di materia prima e di semilavorati da una valle all’altra con aumento dell’incidenza di costi di trasporto già elevati in funzione non dell’ampio raggio di raccolta del latte dei singoli impianti ma anche dei costi della distribuzione dei prodotti che devono essere immessi nella Gdo nazionale. Il modello quantitativo, della falsa razionalizzazione industrialista sta implodendo.
Politica miope
Decenni di politica industrialista hanno frenato e scoraggiato la crescita del comparto artigianale. Per troppo tempo per i piccoli caseifici non ci sono stati finanziamenti sulla base dell’assunto “abbiamo finanziato il caseificio comprensoriale, basta un caseificio per area”. Ora è abbastanza evidente che le economie di scala sono sempre più controbilanciate dai costi della rigidità. I gusti dei consumatori cambiano e si differenziano ma le strutture industriali rigide, appesantite dagli investimenti in grossi impianti non possono adeguarvisi. E poi i costi di certificazione, i costi amministrativi, il peso del management, i costi di smaltimento delle grandi quantità di prodotti di scarto delle lavorazioni, il crescente costo dei carburanti. Non è così solo a Fiavè: caseifici abbastanza grossi da soffrire di questi problemi sono presenti in tutte le regioni alpine; basti pensare al latte di Sappada che “viaggia” sino a Lattebusche a olte 100 km e alle realtà delle principali vallate lombarde e piemontesi. Per ora la politica e le burocrazie (pubbliche, parapubbliche, pseudoprivate strettamente legate tra loro) non ne vogliono sapere di fare autocritica e cambiare rotta. Troppi interessi corporativi, ben consolidati, ben organizzati, ben accreditati presso le istituzioni.
Michele Corti per Ruralpini
per gentile concessione dell’autore
8 dicembre 2009