Pascolo, foraggi polifiti, mais esente da stress idrici, e soprattutto animali liberi di vivere all’aperto per buona parte dell’anno o in cuccette individuali e in stabulazione libera nella stagione più rigida. Tutto questo è quello che di un formaggio ci piace, e tutto questo è in massima sintesi il Gran Moravia, il nuovo formaggio di tipo “grana”, prodotto nell’omonima regione ceca e sbarcato sul mercato italiano in questi ultimi mesi. Un formaggio che il produttore, Brazzale SpA di Zanè, in provincia di Vicenza, ha deciso di promuovere nel corso dell’estate attraverso una imponente campagna pibblicitaria incentrata sulla stampa quotidiana italiana.
Ma questo non va bene a tutti. E soprattutto non va bene al Consorzio di Tutela del Grana Padano, che il nome “grana” ritiene di averlo fatto proprio (o forse lo ha davvero fatto suo, ma che in origine era di tutti quelli che “facevano grana”) e che oramai e da sempre è universalmente utilizzato per descrivere una famiglia di formaggi, realizzati con una certa tecnica casearia, utilizzata ad esempio anche per il Parmigiano-Reggiano, il Pecorino Romano, il Granglona. Ecco, quest’ultimo ad esempio, forse sconosciuto ai più, è un ottimo formaggio sardo da latte ovino, che in origine si chiamava Gran Sardo – e poi Grananglona – e che, a seguito delle azioni legali attuate dal “consorzio più grande che c’è” ha dovuto cambiare nome per non lanciarsi in un braccio di ferro che appariva perso in partenza.
Ora, lo si può ben immaginare, alla Brazzale non è che il problema non se lo siano posti, ma evidentemente qualcosa deve aver fatto decidere all’azienda vicentina di tirare diritta per la sua strada, lanciando una sfida che a noi personalmente piace se non altro per vedere stavolta come andrà a finire, perché se è vero com’è vero che quel nome – “grana” – è il nome generico con cui comunemente si definisce una certa tipologia casearia (i tecnici del settore han sempre detto, dicono e diranno “quel formaggio è un grana”, come si può dire “quell’altro è un erborinato”, ndr), allora staremo a vedere se di fronte alle eventuali schermaglie giuridiche e a una realtà che ha spalle larghe per sostenere processi su processi, i giudici daranno ragione ancora una volta al consorzio del Grana Padano.
Per ora tutto tace, o quasi. I legali da una parte han di certo studiato la questione e dato il via al produttore per usare quel nome. Dall’altra il da farsi è senz’altro allo studio. Ce lo fanno capire le cronache agostane di alcuni giornali, con il quotidiano Libero che il 17 agosto ha dedicato la bellezza di tre articoli per puntare il dito contro chi starebbe giocando un gioco scorretto nei confronti dei “grana” italici (Parmigiano-Reggiano incluso) senza sottolineare più di tanto che il metodo di allevamento delle bovine utilizzate è oggettivamente il più apprezzabile che possa esistere (non a caso la Brazzale parla di una “filiera latte ecosostenibile”, come si può ben vedere sul suo sito).
Dal canto suo, il vicentino Csqa, ente di certificazione e controllo del Grana Padano, ha già detto la sua attraverso le pagine del quindicinale “Vicenza Più”: «Dopo il “caso” del formaggio Gran Moravia, ennesima imitazione italian sounding dei marchi nostrani più blasonati, l’Ente di Certificazione, leader indiscusso nel settore agro-alimentare, riafferma la propria vocazione alla territorialità e l’impegno a tutelare la qualità del Made in Italy e dei prodotti Dop e Igp”, denunciando poi che la “Brazzale”, già certificata da Csqa per il sito produttivo di Zanè (VI), aveva richiesto all’ente la certificazione di prodotto per il Gran Moravia. Richiesta respinta dal Comitato Direttivo dell’Ente per evitare di dare forza ai prodotti italian sounding».
Fatte queste debite e chiare premesse sul ruolo che il Csqa giocherà in una non improbabile battaglia legale tra le due parti, l’ente di controllo punta il dito su quello che sarebbe l’aspetto più critico della campagna pubblicitaria di Brazzale, vale a dire l’aver menzionato in essa una certificazione – l’Iso 9001 – che nulla ha a che vedere con la produzione del formaggio oggetto del contendere, precisando poi che «Csqa si è immediatamente attivata per richiedere alla ditta produttrice di eliminare, dai propri canali promozionali, ogni riferimento a certificazioni Csqa, dopo l’utilizzo improprio che ne è stato fatto. Tali certificazioni, infatti, non sono associabili alla filiera agroalimentare del prodotto in questione (come si evince invece dal sito internet che lo promuove) ma solo allo stabilimento di Zanè (VI). Qualora la ditta produttrice non desse seguito alla richiesta, Csqa procederà alla sospensione ed alla revoca della certificazione rilasciata».
Le prime schermaglie sono avviate. Ora staremo a vedere la reazione dell’imprenditore vicentino, non escludendo che poi il Consorzio del Grana Padano decida in un prossimo futuro, di mettere in campo le risorse e gli strumenti necessari per un’altra azione legale.
La sensazione, per quanto ci riguarda, è che ancora una volta ne vedremo delle belle.
1 settembre 2010