La Russia casearia, tra business, ambizione e identità da trovare

La Piazza Rossa a Mosca – foto Pixabay©

“Le aziende italiane vogliono investire nella produzione di formaggio a Mosca”. Esordiva con questo titolo mercoledì scorso l’agenzia stampa sovietica “Sputnik” riferendo di un’iniziativa promozionale (curiosamente definita “show”) tenutasi a Milano giorni addietro, citando come fonte della notizia il “ministero per gli investimenti e l’innovazione della regione di Mosca”.

“La presentazione dell’investimento potenziale nella regione” si è tenuta il 20 e 21 novembre nel capoluogo lombardo suggerendo a duecento imprenditori presenti di investire (“Invest in Moscow Region”) nel territorio della capitale dell’ex Unione Sovietica.

“C’è incredibile eccitazione per il commercio del formaggio. Le aziende italiane sono considerate più tecnologicamente avanzate in questo settore e vogliono investire in questo settore”, riferisce questo il comunicato del vicepresidente del governo della regione, Denis Buzaev.

“Le aziende italiane”, spiega l’agenzia stampa russa, “sono interessate anche alla produzione di componenti per gli investitori di Mosca”, aggiungendo che “nell’ambito dello show si sono svolti incontri con i produttori di attrezzature per la lavorazione dei prodotti agricoli”. Gli occhi dei funzionari russi sono puntati sulla dinamicità sinora dimostrata dagli operatori lombardi del settore, che hanno investito due dei tre miliardi spesi – “in più di dieci anni di cooperazione” – da operatori italiani del settore in questo àmbito e in quei territori.

Interpellato su questo stesso argomento dal sito “Russia Beyond”, lo chef stellato Leandro Luppi (ristorante “Vecchia Malcesine”, nell’omonimo villaggio sul Lago di Garda) ha avuto parole di apprezzamento per ciò che al momento si produce in quel Paese: «La Russia dovrebbe promuovere di più i propri prodotti all’estero».

«Qui», precisa Luppi nell’intervista, «ho scoperto gusti netti, precisi, buoni. Purtroppo, ad eccezione del caviale e dello storione, i prodotti russi in Europa si conosco poco», a differenza dei giapponesi, ad esempio, che «sono riusciti a fare una grandissima campagna di comunicazione», tant’è che «oggi molti chef conoscono e utilizzano i vari tipi di alghe».

Qualche riflessione per i nostri produttori rurali – C’è da aggiungere che, al di là delle evidenze palesate, il fenomeno che si è venuto a instaurare con l’embargo russo – ha tra le sue pieghe alcuni aspetti su cui l’Italia – come tutti i Paesi con delle propie culture casearie – si dovrebbe interrogare. Il primo tra tutti è relativo al traffico di conoscenze che si è avviato da quando i nostri tecnici hanno iniziato ad essere ingaggiati, portando in Russia una buona parte del nostro know how caseario, traendo da questo “traffico”, pur lecito, lauti e personalissimi benefici economici.

Quando l’embargo russo cadrà, semmai dovesse cadere, chi volesse cimentarsi nell’esportazione si troverà ad operare in un mercato affollato di “similari” con cui sarà difficile competere, se non sul campo della qualità reale dei prodotti. Prodotti che abbiano un Dna identitario non riproducibile in quanto unico e particolare (erbe e fieni locali; razze autoctone).

Una considerazione che, al di là della “questione russa”, induce a capire quali aspetti della produzione casearia sono realmente caratterizzanti e inespugnabili. Un messaggio che dedichiamo a tutti i produttori, ma in special modo a quanti, pur operando in una dimensione rurale, han fatto loro talune scorciatoie tecniche che – all’esame di palati mediamente addestrati, palesano i limiti di una standardizzazione (di mangimi, integratori e fermenti selezionati) che oggigiorno appare – anche in Italia, purtroppo – sempre più diffusa.

26 novembre 2018