Tirolo: dimezzata la pena all’allevatore per la turista uccisa da una sua vacca

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La montagna non è per tutti né tantomeno di tutti. Chi vi lavora e vive ha però – o meglio dovrebbe avere, secondo logica – un diritto in più: quello di essere rispettato da chi la frequenta occasionalmente, sia esso uno scarpinatore della domenica o uno sportivo, poco importa se appiedato, motorizzato, in bicicletta. O con gli sci.

Chi lavora in montagna, se non vive tagliando legna (checché ne dicano gli eco-saputelli, è attività utile all’ambiente, se ben praticata, ndr) lo fa quasi sempre allevando animali, da latte o da carne. Gente che ha le proprie vacche e il proprio toro (o capre o pecore e relativi maschi); gente che difficilmente è scesa a patti con la modernità delle inseminazioni artificiali e delle scorciatoie in caseificio. Gente che – molto più spesso di quanto si creda – i vitelli, i capretti e gli agnelli preferisce svezzarli sotto le loro madri, come in montagna si è sempre fatto.

Bene, quegli animali, quali che siano, bisogna conoscerli per poterli gestire, per avvicinarli, per muoversi tra di loro. Anche se li si conosce da sempre; figuriamoci se uno arriva lassù dalla città, sconosciuto e ignorante (ignorante di cose di cose della montagna, ben inteso!), e magari col suo cane, cosa può accadere. Fateci caso se ne vedrete ancora: il guinzaglio, se ci sarà, sarà lì a ciondolare, al polso dell’uomo. Il cane sarà libero, e alla prima vacca che avrà di fronte (magari col vitellino) inizierà a corrergli (in)contro, magari con l’idea di giocare, poveretto.

“Tutto qui?”, si chiederà qualcuno di voi. Tutto qui e ce già abbastanza per temere il peggio. Pensate che la scena – tutt’altro che di fantasia – si presento esattamente così, nel luglio di cinque anni fa ad una signora che non potè neanche raccontarla. Perché morì. “Condannata” dal suo stesso cane – libero, senza guinzaglio – e dalla sua stessa dabbenaggine, la poveretta finì calpestata e sfigurata dalla bestia, che in sostanza si comportò come tutte le madri avrebbero fatto in quanto aggredite. Con una massa di 5 o 6 quintali almeno c’è poco altro da fare che accendere un cero a qualche santo protettore.

La vicenda, che ebbe come scenario un alpeggio della Pinistal, in Tirolo, la raccontammo il 4 marzo scorso, dopo che il Tribunale di Innsbruck decretò la condanna per l’allevatore. Pensate alla morte della poveretta, certo, ma anche alla sorte di chi per l’imprudenza altrui sarà costretto a sborsare mezzo milione di euro, o giù di lì.

“Una pena eccessivamente severa”, commentarono in molti a caldo e nei mesi a seguire. Nei giorni scorsi, finalmente, in seduta d’appello, accertate le attenuanti dell’allevatore e le aggravanti della defunta (le corresponsabilità emerse nella ricostruzione dell’episodio, ndr), i giudici sono giunti su posizioni più miti, dimezzando il maxi-indennizzo che ora si aggira sui 244mila euro.

E così, mentre agli occhi degli allevatori austriaci, la sentenza rimane esemplare (“fate attenzione, ché non vi basta una vita per pagare!”) nonostante l0 “sconto”, la medesima dovrebbe ora rappresentare un monito anche a chi pratichi la montagna con eccessiva noncuranza.

A detta dei giudici, in sostanza “sarebbe servita una recinzione, e non solo i cartelli che annunciavano la presenza di vacche e vitelli”, ma sarebbe bastato – e basterà sempre e comunque – che quel cane, come altri centomila o un milione in futuro, siano condotti sempre al guinzaglio, per salvare la vita del loro stesso padrone. Sulla possibilità che la nuova sentenza incida sull’indisciplina di molti camminatori della montagna – siano essi austriaci, tedeschi o italiani – conserveremo sempre dei forti, fortissimi dubbi.

9 settembre 2019