A poco più di due mesi dall’inizio della pandemia da Covid-19, molto e profondamente sono cambiate la vita sociale e gli equilibri economici e produttivi mondiali, sotto la spinta di un’incertezza globale che non permette di prevedere – al di là di semplici ipotesi – scenari futuri possibili. Certo, alcuni cambiamenti possono essere ipotizzati nel breve e nel medio termine – e tra questi la diffusione del lavoro da remoto e l’accelerazione che la robotica potrebbe avere in molte realtà produttive – ma larga parte delle prospettive che ci attendono sono celate ben oltre la pallida luce che la “fase 2” ci lascia intravedere.
Se c’è qualcosa che attualmente semina sconcerto, di fronte alla ineluttabilità di un profondo rinnovamento delle società in cui viviamo, questa è la posizione di un’industria alimentare ancora arroccata sulle posizioni originarie, quasi fosse rimasta impietrita nel suo fare, come fosse incosciente del fallimento a cui il sistema capitalistico dovrà inevitabilmente far fronte per tentare di rinnovarsi.
Sempre più larghi strati della popolazione mondiale, in primo luogo nei Paesi industrializzati, stanno aprendo gli occhi sulle non poche responsabilità sociali, ambientali ed economiche che zootecnia e agricoltura intensive hanno assunto nel corso del tempo, e su quanto non sia più differibile una svolta tesa a riequilibrare il rapporto tra mondo produttivo ed ecosistema. [continua dopo la pubblicità]
L’immobilismo in cui l’industria appare attualmente inchiodata è manifesto nella pervicace propensione a puntare ancora la materia prima sul mercato globale, sempre alla ricerca del prezzo più basso, laddove evidenze tutt’altro che trascurabili richiedono che si torni ad accorciare le filiere produttive, che si attinga al mercato locale, che si capisca che non sono i 5 centesimi al litro in meno l’unico fattore da tenere in considerazione.
“Ne usciremo solo se resteremo uniti”: questa una delle affermazioni che le principali cariche istituzionali del nostro Paese (e non solo) hanno ripetuto in varie occasioni nelle ultime settimane. A quanto pare chi ha rilevanti responsabilità nella prospettiva del cambiamento (chi produce, dà lavoro, vende merce di prima necessità) sta facendo orecchie da mercante, ma non potrà protrarre ancora per molto questo inadeguato e anacronistico atteggiamento.
Impossibile giustificare l’inerzia con cui le industrie tutte hanno sinora risposto ai ripetuti appelli tesi a sostenere gli allevatori italiani. L’Italia produce all’incirca il 60% dell’attuale fabbisogno di latte, indi per cui se anche il 40% arrivasse dall’estero le nostre stalle non verserebbero nella crisi che stanno vivendo (il che la dice lunga sull’italianità di molte produzioni, ndr), con un prezzo del latte alla stalla piombato sotto della soglia dei 30 centesimi al litro (297,50€ per ton).
Si badi bene: il problema non è solo e unicamente italiano ma mondiale, quindi sovranazionale ed europeo, ed è evidente che la politica comunitaria debba maturare delle decisioni e far sentire il proprio peso ben oltre le recenti raccomandazioni a ridurre i volumi offrendo compensazioni. [continua dopo la pubblicità]
Sbagliato è indicare una soluzione unica a Paesi che producono taluni sotto la richiesta di mercato e tali altri in esubero rispetto a quella. Occorrerebbe quindi calmierare i secondi e sostenere i primi attraverso una politica protezionistica che tuteli le filiere locali, e occorrerebbe rivedere non pochi dei meccanismi di una Pac che oggi più che mai appare inadeguata in quanto largamente vincolata alle logiche della globalizzazione.
Un maggio di sangue in Quebec, con gli abbattimenti obbligatori
Se si guarda in una prospettiva più ampia emerge in questi giorni il caso del Quebec. Dopo aver ricevuto pressanti richieste di intervento da parte degli allevatori, costretti a gettare in poche settimane 10 milioni di litri di latte, le autorità della provincia canadese hanno disposto – giovedì 29 aprile scorso – l’obbligo di abbattimento del 2% delle bovine in tutti gli allevamenti che abbiano avuto eccessi produttivi, ripromettendosi di valutare a fine maggio l’esito dell’iniziativa sui volumi prodotti e soprattutto sull’andamento del prezzo alla stalla.
La misura, ufficializzata dal presidente del Centre di Québec Upa, Daniel Habel, è fortemente impopolare e si presume che non avrà un impatto positivo né tra i produttori né tra i consumatori, ma tant’è, il dado è ormai tratto: il momento è assolutamente critico e lascia spazio ad un decisionismo autoritario che semina incertezza sull’incertezza, lasciando il singolo in balìa di un’autorità che a volte si arroga facoltà che non gli sono proprie. In questo senso c’è da sperare che nessuno in Europa prenda spunto da quanto sta accadendo nella provincia francofona del Canada. [continua dopo la pubblicità]
Alle spalle della crisi corrente lo scenario quebecchese appare simile a tanti altri, incluso quello italiano ed europeo: un sostanziale fermo delle ordinazioni da parte degli alberghi, dei bar, dei ristoranti. E una tendenza del pubblico a spendere forse anche di più per l’alimentazione, ma a scegliere prodotti più economici: in sostanza – tutto il mondo appare paese – più dai banchi frigo dei supermercati che al banco della gastronomia.
In frenata anche il mercato della carne
Non va meglio agli allevatori di bovini da carne, di suini, di polli: il mercato è in frenata, gli animali vengono alimentati ma le macellazioni procedono così a rilento che alcuni mattatoi sono stati chiusi per intere settimane, o hanno lavorato con orari ridotti. Anche su questo fronte urge una soluzione, già che i costi per l’alimentazione degli animali sono ingenti, e a qualcuno tutta quella carne dovrà al più presto essere destinata.
4 maggio 2020