Una vera bomba mediatica – c’era da aspettarsela prima o poi – è deflagrata in Francia, giovedì scorso 22 ottobre, investendo il “sistema Lactalis”, portando a galla una realtà che a girarla e rigirarla tra le mani, osservandola attentamente senza veli, non ha alcun lato in grado di risplendere: né nel rispetto dell’ecosistema, né in quello dei consumatori, né nei rapporti con i propri lavoratori, siano essi l’ultimo fattorino assunto o il responsabile di un’unità produttiva.
A spalancare le porte su uno scenario grave – anzi gravissimo – ci ha pensato l’editore del periodico transalpino Disclose, che dopo anni di indagini, stratificando prove su prove, ha finalmente vuotato un sacco che era stato pazientemente riempito con tanto coraggio e lavoro da quattro valenti collaboratori: Mathias Destal, Marianne Kerfriden, Inès Léraud e Geoffrey Livolsi.
L’illegalità come fondamento di un’attività industriale
A tre anni dallo scandalo internazionale sul latte per la prima infanzia contaminato da salmonella, l’indagine eseguita da Disclose conferma i forti dubbi sulla legalità di molte della azioni intraprese dal gigante francese del latte, mettendo a fuoco il ritratto di un’azienda che per garantirsi competitività e competizione avrebbe messo sotto le suole delle scarpe – non solo ripetutamente, ma sistematicamente – il rispetto per l’ambiente, la sicurezza del cibo e altro ancora.
Le indagini condotte dai quattro collaboratori di Disclose hanno permesso di accertare che trentotto delle settanta fabbriche francesi del gruppo sono state più volte indagate, bloccate e sanzionate per violazioni delle normative ambientali, includendo tra essi sistematici scarichi di sostanze inquinanti nei corsi d’acqua (come se le normative non li riguardassero). Di uno di essi, assai grave, riferimmo nell’ottobre del 2017.
Sollecitato ad esprimersi sulla questione, il direttore generale dell’Agenzia per l’acqua della Loira-Bretagna, Martin Gutton, esterrefatto, pare che abbia semplicemente affermato: «Non ci posso credere», esprimendo il proprio sconcerto per la gravità della situazione, ben sapendo che l’azienda ha usato parte dei finanziamenti pubblici ottenuti per pagare le mai troppo severe multe, spesso evitate o ridotte attraverso l’applicazione di cavilli, la presentazione di ricorsi e la speculazione sulle evidenti lacune del sistema sanzionatorio.
I soldi ai Besnier, i reati ai dirigenti delle filiali
Ma non solo. Al di là delle molte e reiterate tossinfezioni provocate negli anni in Francia e all’estero, con esiti gravi e talvolta drammatici, per la salute di grandi e bambini, l’analisi effettuata dai quattro collaboratori di Disclose fa emergere un’organizzazione interna tesa a creare un’infinità di “parafulmini” (uno almeno in ogni unità produttiva, ndr), nel tentativo di evitare alla proprietà, che questo sistema ha pur architettato, le responsabilità che un’industria deve assumersi, con la giustizia, se agisce in maniera illecita o, per meglio dire, piratesca.
In un’intervista su un’impostazione aziendale, quantomeno anomala, il presidente del gruppo, Emmanuel Besnier, dichiarò che «Siamo un’insieme di centinaia di attività commerciali locali: i nostri servizi centrali rimangono piccoli, e deleghiamo molto». La verità, ora emersa, è che la sede operativa sita a Laval, nel dipartimento della Mayenne, delega assai poco alla periferia, e questo si vide già nel giugno del 2019, con la riorganizzazione di Parmalat e il piano di riassetto della dirigenza.
Quindi Lactalis affida solo una piccola parte delle decisioni ai dirigenti di fabbrica, e la struttura che si è data, quella di un universo con una miriade di pianeti che ruotano attorno ad un sole (un sole che tutto governa ma nulla vuol sapere dei guai periferici) manifesta una strategia molto poco ammirevole: quella di diluire la catena delle responsabilità su più nodi periferici. In sostanza, i vertici di ogni stabilimento si trovano quindi in prima linea, da soli, in caso di controversie e procedimenti giudiziari, che spesso sono avviati per pratiche illegali voluti dalla proprietà. In una parola sola: un mostro. In poche parole: un tiranno e i suoi schiavi.
Se questo non bastasse, si consideri che l’impero dei Besnier oggi genera un fatturato annuo di 20 miliardi di euro, e nonostante le sue dimensioni, ha sistematicamente evitato di essere quotato in borsa: un’anomalia nel mondo dei colossi agroalimentari ma non una lacuna; una scelta precisa, mossa da motivazioni nette ed evidenti: il fatto di non essere quotati in borsa permette al gruppo di regnare nel mercato dell’oro bianco senza dover rendere conto né ad azionisti né a nessun altro. Liberi di fare, disfare, e di agire più o meno lecitamente. Tanto la gran parte dei problemi non saranno i loro bensì quelli dei dirigenti delle varie unità produttive.
In termini di illegalità e illeciti, tanta roba per un sistema giudiziario che volesse lavorare nel segno di una Giustizia giusta. Che forse però in Francia, come in molti altri Paesi tende a latitare.
26 ottobre 2020
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