
A metà aprile il servizio della televisione pubblica France 5, realizzato dal giornalista d’inchiesta Hugo Clément e intitolato “Fromages: où est passé notre terroir?” (trad.: “Formaggi: dov’è finito il nostro terroir?”) aveva causato qualche reazione – ma neanche troppo accorata – essendo andato a toccare interessi economici e immagine della componente industriale più attiva nella produzione di formaggi Aop (Appelation d’Origine Protégée, la nostra Dop) del Paese.
La breve ma ficcante inchiesta (52 minuti), realizzata per il format “Sur le front con Hugo Clément” (“In primo piano con Hugo Clément”) era andata a investigare i fondamenti del buon formaggio d’Oltralpe – razze antiche, pascolo e fieni locali, bassa produttività, autenticità e soprattutto il sacro concetto di terroir – dimostrando le innumerevoli sovrapposizioni tra prodotti autentici – di antica tradizione, radicati in territori circoscritti e realizzati con apprezzabile savoir-faire da piccoli “artigiani del latte” – e le loro brutte copie industriali.
I primi talvolta non facili da reperire, spesso disponibili solo nelle zone di produzione e non in tutte le stagioni, e di prezzo adeguato al loro valore (formaggi con un’”anima”, o un “carattere”, come si suol dire), i secondi nati negli ultimi venti o trent’anni, via via che le maglie delle Aop venivano allargate, sotto le pressioni delle big di settore. Big che, modifica (di disciplinare di produzione, ndr) dopo modifica, introducendo razze iperproduttive, latti di territori allargati, pastorizzazioni (laddove le lavorazioni erano a latte crudo), fermenti selezionati, mangimi – e molto altro ancora – portano quei “facsimili” ad essere – agli occhi di intenditori e di chi un palato in grado di discernere ancora lo ha – grottesche rappresentazioni rispetto agli originali. Formaggi buoni per chi ha perso i punti di riferimento. O che i punti di riferimento non li ha mai avuti.
Un’inchiesta che disvela il mondo dell’omologazione casearia
Col suo lavoro Clément svela il volto poco noto della produzione intensiva francese: formaggi che vorrebbero vivere di rendita sui luoghi comuni e sulla reputazione costruita da altri, prodotti banali, che al naso e al palato hanno poco o nulla da dire, apparendo banali e omologati. E che, quando osservati dalla prospettiva ambientale, appaiono appesantiti dalle responsabilità di chi è colluso con monocolture, perdita di biodiversità, peso della direttiva nitrati. E dell’erosione genetica.
Di fattoria in fattoria, da una regione a vocazione casearia all’altra, il giornalista disvela così agli occhi dei francesi una realtà che pochi conoscono davvero. Fatta di razze autoctone a rischio di estinzione, se non già spazzate via dall’egemonia delle Holstein, animali reclusi a vita in stalle sempre più popolate, distese di silos e di mais a perdita d’occhio, celle climatizzate sterili che hanno soppiantato cantine naturali (popolate da preziosi batteri “buoni” che danno carattere al formaggio, ndr), vasche d’acciaio e piastrelle ovunque e uomini e donne che non hanno più legame alcuno con quelle pratiche ancestrali che resistono ormai solo nella retorica dello storytelling.
L’orgoglio di contadini, allevatori e casari custodi
Di fronte a questo scenario omologato, sempre uguale a sé stesso in territori diametralmente opposti dal punto di vista ambientale, orografico e culturale, appare il contrasto con le piccole enclave dei contadini custodi, che hanno a cuore le sorti delle piccole razze rustiche superstiti, ancora avvezze al pascolamento e non ai mangimi, fieri del poco ma straordinario latte mai uguale a sé stesso e di produzioni stagionali che mutano al mutare delle stagioni. Contadini, allevatori e casari che raccontandosi rivelano l’orgoglio di chi è depositario di tecniche ancestrali non replicabili altrove o altrimenti.
Ma non solo. Perché da buon giornalista d’inchiesta qual è, Clément non si limita a questo tipo di narrazione, e decide di entrare nei laboratori dell’Inrae (Institut National de la Recherche pour l’Agriculture, l’alimentation et l’Environnement) per capire, con l’aiuto dei ricercatori, cosa si cela dietro i concetti di produttività e standardizzazione. E ad esempio come si pratica la destagionalizzazione che permette alle big del settore di produrre formaggi caprini freschi 365 giorni all’anno. E quali logiche si celino dietro tutto ciò: da una “necessità” all’altra: l’una, quella di avere disponibilità di prodotto anche a Natale (nonostante il periodo di asciutta delle capre) e l’altra, quella di poter offrire formaggi sempre uguali a sé stessi, soppiantando erba e fieno con razioni (mangimi) sempre uguali a sè stessi.
A tre settimane dalla messa in onda di quel servizio televisivo, senza alcuna apparente urgenza, una parte di quella Francia ancora orgogliosa di mantenere viva una vera cultura casearia dimostra – senza gridare – un po’ di sano stupore, raccontando dalle pagine di giornali a diffusione più o meno locale che qua e là ancora esistono comunità resistenti, magari trascurate da quell’inchiesta giornalistica che, per quanto esaustiva, non poteva certo raccontare di tutti e di ciascuno.
E intanto in Italia…
Al contempo, di qua dalle Alpi, un po’ stride l’immagine di un ministro intento a sostenere gli interessi delle corporazioni industriali del latte alla ricerca di un improbabile patto con il mondo della ristorazione. Un latte che adducendo argomenti valoriali imperscrutabili ha il solo obiettivo di sostenere la crisi di Dop più o meno grandi, più o meno legate al mais che al fieno o all’erba, più sostenute dall’incessante storytelling che da un’autenticità ampiamente perduta. O mai avuta.
Nella speranza che Sigfrido Ranucci & Co. riescano a incrociare un giorno il lavoro di Hugo Clément e che vi trovino una sana ispirazione, e che le ultime residue trasmissioni Rai non omologate sappiano resistere alle pressioni del Palazzo, guardiamo alla Francia di oggi – che nonostante i suoi limiti ancora mostra prospettive vitali, auspicando un’Italia migliore, magari domani.
8 maggio 2024