Il cosiddetto “latte vegetale” fa paura. Dei suoi scarsi valori nutrizionali vi riferimmo nel settembre 2022 (più che autorevoli le fonti: Food and Drug Administration e Massey University) e della sua instabilità microbiologica nel giugno dello scorso anno (fonte illustrissima: il francese Inrae) ma il vero campanello d’allarme aveva risuonato alla fine della scorsa estate, quando l’Institut Pasteur di Parigi denunciò l’alto rischio di contaminazione di quegli pseudo-latti” e pseudo-formaggi da parte del batterio listeria monocytogenes .
La cronaca canadese di questi giorni ci conferma purtroppo che tanti avvisi e raccomandazioni non erano sostenuti né da allarmismo né tantomeno da campagne di dissuasione all’acquisto (come alcuni fomentatori vegani avevano varie volte ventilato, ndr) ma rispondevano né più né meno alla cruda realtà. Purtroppo per tre delle persone che non hanno dato peso a quegli avvertimenti – o che non ne sono venute a conoscenza – una serie di infauste coincidenze ha decretato la morte.
Sebbene i tre decessi risalgano alla metà dello scorso agosto (periodo in cui le nostre pubblicazioni sono sospese, ndr), le verifiche sull’impianto di produzione incriminato sono terminate a fine ottobre, aggiungendo responsabilità su responsabilità ai produttori e all’efficacia del sistema di allerta alimentare.
A metà agosto quindi il batterio della listeria fu individuato presso l’impianto di produzione della Joriki Inc. di Toronto. Due tra i più popolari i marchi colpiti dalla contaminazione: “Silk” (brand Danone) e “Walmart’s Great Value” (dell’omonima catena di supermercati) nelle bevande a base di anacardi, avena, cocco e mandorle. Rilevante l’epidemia che seguì, con venti casi accertati, tre decessi e tredici ricoveri ospedalieri, nelle province di Alberta, Nuova Scozia, Ontario e Quebec.
Purtroppo nel 2022 la Cfia (Canadian Food Inspection Agency) aveva catalogato i prodotti a base vegetale come a “basso rischio”, in quanto tutti comunemente pastorizzati. A indurre l’ente ad un approccio più attento, sin da allora e per il futuro, sono valse considerazioni aggiuntive e ancorché tardive, sulle lacune nelle pratiche igieniche e di produzione che possono portare a conseguenze fatali anche in un impianto che pastorizzi.
A seguito dell’epidemia la Cfia ha così effettuato sei visite di routine alla struttura coinvolta nel caso, appurando che sul lotto incriminato non era stato effettuato né un corretto tampone né un test del prodotto finito.
“Seguire il protocollo corretto negli impianti e nelle strutture”, commentano oggi i responsabili della Cfia, “è fondamentale per garantire la sicurezza del consumatore. Il protocollo corretto per una struttura di produzione a base vegetale include (ma non è limitato a) il mantenimento dei corretti livelli di temperatura e umidità, la disinfezione delle attrezzature, delle pareti e dei pavimenti e l’effettuazione dei test con tampone sulle superfici, per rilevare batteri o agenti patogeni”.
La vicenda canadese pone l’accento sull’importanza e la corretta applicazione di rigorosi protocolli di auto-controllo, ma solleva anche il dubbio sull’adeguatezza delle ispezioni che enti come la Cfia operano sui produttori. Ad oggi l’impianto della Joriki Inc., chiuso in estate, non è ancora stato riaperto. La vicenda non può non riportare alla mente quanto accaduto in Francia a partire dal dicembre del 2017, quando più e più volte lo stabilimento Lactalis di Craon, nella Mayenne venne chiuso e riaperto e poi di nuovo chiuso, già che la contaminazione della sua torre di essiccamento continuava a palesare la presenza ostinata di salmonella.
Vale la pena ricordare che in vicende come queste sono in gioco vite umane, salute pubblica e in fin dei conti una giustizia raramente – o meglio mai – riesce ad essere davvero e pienamente giusta.
6 novembre 2024