Prosegue l'offensiva mediatica statunitense contro il "made in Italy" caseario. Dopo il clamoroso caso del quotidiano Bloomberg online che nel settembre scorso gridò allo scandalo per i (presunti) falsi di casa nostra (loro che di falsi sono campioni!, ndr) attraverso un articolo costruito con l'arte del discredito, ecco che una testata di minor importanza ma pur sempre prestigiosa (vanta tre premi Pulitzer conseguiti nel 2008, 2010 e 2011), il Journal Sentinel del Milwalukee-Wisconsin, pubblica un'altra perla di disinformazione, basata su un'intervista a Neal Schuman, amministratore della Arthur Schuman Inc., importatore e distributore statunitense di formaggi industriali (dalle italiane Formaggi Busti, Fattorie Garofalo, Formaggi Zanetti alle "italian sounding Bella Rosa, Imperia, Tutta Bella). Lupus in fabula: la lezione stavolta dovrebbe arrivare da chi vende sullo stesso piano prodotti italiani e prodotti che italiani vorrebbero sembrare. Ottimo inizio, sul piano della credibilità.
L'articolo, firmato da Rick Barret e intitolato "Cheese executive condemns epidemic of inauthentic, inferior additives" esordisce raccontando che "milioni di chili di formaggio venduti in questo Paese contengono amidi, "riempitivi" e cellulosa che abbassano i costi per i produttori, ma riducono il valore per i consumatori". "Neal Schuman", prosegue l'articolo, "dice che i prodotti di qualità inferiore spesso si presentano sotto forma di formaggio grattugiato secco venduto nei negozi di alimentari, servito con pasti in ristoranti e in ingredienti alimentari".
"Delle 463 milioni di libbre di formaggi duri italiani venduti negli Stati Uniti ogni anno, secondo Schuman il 20% non è autentico". «Ciò equivale», ed è Schuman ora che parla, «a 93 milioni di chili di formaggi italiani contraffatti, venduti ogni anno ad un valore stimato in 375 milioni di dollari» (non si capisce come faccia i conti questo signore, visto che la libbra corrisponde a poco meno di mezzo chilogrammo, ndr). «Alcuni prodotti sono etichettati in modo errato quali fossero Parmigiano (nell'intervista appellato secondo l'uso corrente "Parmesan"), Asiago e Pecorino, quando in realtà essi non soddisfano gli standard governativi per tali formaggi, secondo Schuman».
Dall'Fda all'uso di cellulosa
Nelle sue non disinteressate esternazioni, Schuman ne ha davvero per tutti. Fda compresa, perché, prosegue il commerciante di formaggi statunitense, «non fa rispettare le norme, permettendo ad alcuni produttori di formaggio di farla franca con la vendita di prodotti di bassa qualità etichettati in modo errato».
Per completare l'opera, infine, l'autore dell'articolo ha pensato di chiudere in bellezza, intervistando altri esperti a stelle e strisce per investigare sugli ulteriori problemi che affliggono il settore. E qui viene il bello, perché l'argomento in cui il pezzo trova la sua chiosa parla di uso e di abuso di cellulosa (che a quanto pare sarebbe diffuso proprio negli States): qui il fumo negli occhi del lettore si fa intenso, perché i riferimenti al Parmesan si fanno ambigui, non precisando l'autore di quale Parmesan si tratti.
La truffa è servita, quindi? Forse sì, ma più che riguardare latte e formaggio ha a che fare con (tante) parole e (assai poca) informazione.
1 dicembre 2014
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