L’aumentata sensibilità del mondo dei consumi verso le tematiche della qualità reale dei prodotti, del loro valore nutrizionale, della sostenibilità ambientale, del benessere animale, hanno prepotentemente fatto il loro ingresso nelle strategie di marketing delle grandi multinazionali. Allo stesso modo in cui molte di esse sono entrate da tempo a gamba tesa sul mercato con una produzione biologica che lascia ai più attenti consumatori diverse perplessità, costringendo i veri produttori bio a mettere i “puntini sulle i” (negli Usa anni fa è nato il movimento dell’Organic Farming”), ecco che il problema si ripropone, ora negli Stati Uniti e – statene pur certi – nel futuro prossimo arriverà concretamente anche in Europa. (Vota il sondaggio!)
Dal canto nostro sfiorammo la questione appena tre mesi fa (clicca qui) a proposito delle nuove strategie di McDonald’s, nate come conseguenza di una preoccupante flessione di mercato. “Come rimediare?”, si saran chiesti i vertici aziendali. E allora via il chief executive officer Don Thomson e spazio all’arrembante Steve Easterbrook, chiamato a dirigere una vera e propria rivoluzione che di certo sarà mediatica e forse di qualche sostanza. La campagna di comunicazione che ne è seguita punta ad affermare l’uscita di McD’s dal segmento del junk food, ripetutamente attaccato dalla First Lady e da una certa intellighenzia progressista.
Una faccenda questa su cui giorni fa il sito web Thepoultryside ha dedicato un interessante articolo di Chris Harris, intitolato “Is Animal Welfare Becoming a Commercial Issue?” (trad.: “Il benessere degli animali sta diventando una questione commerciale?”), laddove l’interrogativo ha un mero significato retorico. “Organizzazioni tra le più grandi e ricche”, afferma il pezzo riferendosi in primo luogo ai trasformatori e ai colossi del commercio, “stabiliscono le norme minime che i produttori delle campagne devono rispettare, dettando pratiche agricole in anticipo rispetto alla legislazione”.
Tra queste realtà così “illuminate”, si fa notare il colosso della grande distribuzione Walmart, anche se i ben informati non si meraviglieranno di certo, visto che la sua controllata Asda (Associated Dairies & Farm Stores Limited con sede a Leeds, Inghilterra: la testa di ponte per l’Europa è già pronta!) lavora da dieci anni alle tematiche dell’allevamento animale, facendosi trovare ora pronta a lanciare il suo programma di “sostenibilità a 360°”. Tra i capisaldi di quella che sembra una rivoluzione ma che di certo è anche o soprattutto propaganda, un facile accesso degli animali all’acqua fresca, un ambiente confortevole, la “libertà” dal dolore e dalla paura, l’esclusione di ogni forma di sofferenza mentale.
Questioni che ancora devono essere ben studiate dal mondo scientifico sono inserite – dolore, paura, sofferenza mentale – in un programma che pare stilato ad arte per conquistare le orde degli animalisti più accaniti. L’articolo poi si sofferma sulla necessità di ridurre gli antibiotici e di operare una procedura rispettosa delle esigenze degli animali ma anche della salute dei consumatori e si spinge ad una dettagliata trattazione delle problematiche del settore suinicolo (leggi qui), tematiche queste entrate nel “cuore” di diverse altri “firme” del settore.
Non sorprenderà certo quindi se un’associazione come Ciwf (Compassion in World Farming) – da qualche anno presente anche in Italia – si renderà disponibile a dispensare premi a questi big per garantire la tranquillità ai consumatori. Su questo fronte anche in Europa sono arrivate le prime iniziative che permettono alle major alimentari di brillare per qualche presunto merito etico o ambientale. Tra di esse Knorr, Unilever, Ferrero, che hanno ricevuto premi e che a questi premi stanno dando risalto attraverso i loro potenti uffici stampa.
Chi premierà i tanti piccoli e onesti allevatori e agricoltori? E se di benessere animale reale vogliamo parlare, che termini ci toccherà usare, dopo che ci sono state scippate un’infinità di espressioni come “alta qualità”, “prodotti di nicchia” e “fresco” (pensateci bene: quando un uovo fresco è prossimo alla scadenza ed ha raggiunto i 28 giorni, merita ancora di essere chiamato fresco? e allora, come le chiamiamo le uova appena deposte? e quelle di due giorni?)?
Ancora una volta la soluzione è nelle mani dei consumatori: gli imperativi d’obbligo son due: informatevi, e andateli a conoscere di persona, i vostri fornitori. Attraverso un gruppo d’acquisto solidale o impiegando bene il proprio tempo libero: una scampagnata ogni tanto farà bene al fisco e alla mente, e di certo insegnerà qualcosa di più ai vostri figli di ciò che una playstation possa offrire.
Negli Usa le major del food promuovono la loro immagine parlando di benessere animale. Sono credibili? (10.07-09.09.205)
{acepolls 2}
Nota: per altri dettagli clicca sul titolo del sondaggio!