Crisi del latte dietro la virata intensivista della zootecnia inglese

Immagini eloquenti sul sito web che promuove il libro sui ''Cafo'' e si prodiga per contrastarne lo sviluppoLa crisi del latte di cui sentiamo parlare da anni, e che si è acuita con la fine del regime delle quote latte, porta con sé ripercussioni gravi e a volte gravissime, a livello di singole imprese, che si vedono costrette a chiudere, sia in Italia che all'estero. Ma un fenomeno a cui pochi hanno dato ancora risalto è quello della riconversione che i sistemi di allevamento del centro Europa – in particolare in Inghilterra – stanno subendo, passando da un'alimentazione semibrada (a differenza dell'Italia, là i pascoli non mancano) ad una zootecnia fortemente intensiva.

Qui da noi l'eco della cosa non è ancora arrivato, ma nel Regno Unito la questione, denunciata dapprima da alcuni gruppi animalisti e rilanciata di recente e con maggior sostanza da Slow Food UK (clicca qui, in lingua inglese), si è fatta giorno dopo giorno sempre più calda, sino a divenire scottante, con un numero crescente di caseifici di grandi dimensioni che acquistano latte locale pagandolo attorno ai 23 centesimi al litro (una stalla tradizionale inglese ha un costo di 28 centesimi al litro), per alimentare le grandi catene di supermercati in continua competizione sul prezzo. E sul prodotto globale.

Gli allevatori, con l'acqua alla gola, hanno operato quello che molti ritengono essere l'ultimo e unico tentativo possibile per scongiurare la chiusura: è così che sono nati grandi concentrazioni che arrivano a superare le 2mila vacche, per lo più alimentate a unifeed e insilati, costrette ora a vivere al chiuso il resto della propria esistenza. La questione non è di poco conto in un Paese in cui la coscienza animalista fa parte della cultura di un popolo, è radicata, è diffusa e non è malata di animalismo-militante. Gli agricoltori, dal canto loro, tentano di difendere una posizione difficilmente difendibile: parlano di benessere animale rispettato, di una zootecnia economicamente ancora sostenibile (ma a quale costo per l'ambiente?), e mettono davanti a tutto le straordinarie difficoltà da loro subite e innescate da industria e Gdo.

Chi si batte per contrastare questo fenomeno ammonisce indicando l'esempio degli Stati Uniti, in cui il fenomeno dei Cafo (Concentrated Animal Feedlot Operations; qui un sito web statunitense che cerca di contrastarne il fenomeno) è sorto e si è radicato in brevissimo tempo, portando alla nascita di stalle-monstre, che ospitano da poco meno di mille sino a 36mila capi.

"Un recente articolo apparso sul quotidiano The Indipendent" – spiegano attraverso il loro sito i responsabili di Slow Food UK – ha denunciato l'esistenza di "dozzine di tali aziende operanti in tutta l'Inghilterra, il Galles, la Scozia e l'Islanda del Nord, con una ventina di impianti in autentico stile  Cafo". La preoccupazione è strisciante: al di là delle indiscrezioni giornalistiche, secondo cui 180mila vacche su 1,8 milioni (10%) vivrebbero in allevamenti di cinquecento o più capi. Dal canto loro però, la National Farmers Union, il Dipartimento per l'Ambiente, il Defra (Food and Rural Affairs), pur interpellati, non comunicano alcun dato, e questo – di per sé – non è un segnale tranquillizzante.

Secondo il portavoce del Dipartimento per l'Ambiente, il Cibo e gli Affari Rurali «non si tratta di aumentare la produzione bensì di incrementare il numero dei prodotti realizzabili con il latte liquido, come – ad esempio – trasformarlo in prodotti di alto valore quale il formaggio è". Sì, vabbé, ma quale formaggio?

14 dicembre 2015