1.000 vacche concentrate in un unico allevamento: le realtà-monstre si moltiplicano in Europa con l’avanzar di una crisi che cancella i piccoli allevatori e lascia proliferare i colossi, che spremono le lattifere a suon di 40-50 litri al giorno e anche più, ogni giorno, con la breve eccezione di un periodo di asciutta dannatamente breve. Vacche che nel giro di quattro anni son già da rottamare, e a dirla tutta vengono finite con un colpo in testa e via all’inceneritore, mentre il perbenismo peloso degli addetti ai lavori parla di “rimonta“, per ripulirsi la bocca e l’anima (se c’è), intendendo con quel termine la sostituzione dei capi spremuti con quelli da spremere. Per avviare un altro giro e un altro ancora, in una giostra fatta di archi temporali che all’aumentare dello sfruttamento animale rischiano di diventare sempre più corti.
Sistemi zootecnici che guardano solo al profitto – ça va san dire – scaricano sull’ecosistema le loro scorie nocive (deiezioni, scarti di alimentazione, farmaci, etc.), e portano sulle tavole dei consumatori i prodotti delle sofferenze animali e di forzature che quotidianamente vengono imposte loro sotto ogni forma possibile e immaginabile. Una domanda per ciascuno di voli lettori: quei prodotti li mangereste se li poteste riconoscere? No? Davvero? Il problema è che quei prodotti li state già mangiando, perché nessuno ha l’obbligo di dichiarare come fa il proprio latte e il proprio formaggio. Lo vuoi italiano? A breve potrai saperlo. Difficilmente saprai il nome della stalla. E di sicuro non saprai mai come il prodotto è nato.
Non è un caso se in Francia, Paese in cui le unioni dei consumatori non hanno gioito (com’è accaduto da noi) per la pantomima della materia prima in etichetta, in questi giorni è in atto un boicottaggio che punta a smascherare i prodotti della stalla dalle 1.000 vacche. Dopo di tutto, il gioco è (sarebbe) semplice per ogni consumatore che si volesse prendere la briga di escludere quei prodotti dalla propria lista della spesa: basta portare con sé l’immagine (o trascrivere la sigla) del bollo CE (“BE-M351B-EG” o “BE-M351B-CE”) assegnato all’azienda e, sul punto vendita, effettuare un semplicissimo controllo: c’è il bollo “incriminato? Sì? Allora il prodotto lo rimetto dove l’ho preso. Non c’è? Allora decido io consumatore se acquistarlo o meno, facendo tesoro del mio bagaglio di conoscenza (più o meno) consapevole.
A lanciare l’attività di boicottaggio – encomiabile nel suo genere – è stata la sigla “Agir pour l’Environnement”, che si descrive come “un’associazione di mobilitazione cittadina nazionale in favore dell’ambiente”. Gli autori dell’iniziativa – che ha già superato le 32mila firme – hanno preso di mira la società belga Ysco Langemark, che dal 1946 produce gelati, specializzandosi negli ultimi anni nella loro produzione in private label, per catene di supermercati e non solo. “È necessario”, si legge nella pagina web della petizione, mettere in discussione gli ipermercati che hanno deciso di vendere questi gelati durante le prossime festività”.
“La dimensione sproporzionata della fattoria rende illusorio il rispetto per gli animali”, prosegue il testo, che invita la gente a boicottare l’azienda: “le vacche sono ammassate come in un campo di concentramento, farcite di antibiotici. Il progetto descrive una logica in cui il cibo spazzatura è solo la continuazione di un cattivo benessere degli animali”.
Come se tutto ciò non bastasse, stavolta la “fattoria delle 1.000 mucche” è stata anche accusata di incidere sull’attuale crisi del latte. E a pensarci anche solo un po’ non c’è da dargli tutti i torti: le grandi concentrazioni produttive hanno sempre colpito i piccoli produttori, in qualsiasi settore si siano manifestate sinora. Un aggravante non da poco, per dei consumatri che dimostrano di intendere le logiche di mercato sui 360° su cui si manifestano.
14 dicembre 2016