26 marzo 2009 – Ha destato un cospicuo interesse tra il grande pubblico, la scorsa settimana, la cronaca – pubblicata dai maggiori quotidiani nazionali – relativa alla ricerca condotta da una serie di Università italiane e avente come obiettivo la produzione di un pecorino “anticolesterolo”, in grado di abbassare il colesterolo cosiddetto “cattivo”. La notizia, di per sé fondata e interessante, non poteva non colpire i media rappresentando una di quelle vicende di sicuro effetto sui lettori in quanto basate sulla negazione di una credenza tanto diffusa quanto difficilmente rimovibile dall’immaginario collettivo.
Dopo che per decenni una classe medica disinformata sulle proprietà dei formaggi da animali al pascolo (offrono vantaggi per la circolazione e il cosiddetto colesterolo buono, e non è che lo si sappia da ieri, ndr) ha inculcato nella mente degli italiani che il formaggio aumenta il colesterolo (è vero per i formaggi industriali e quando l’alimentazione non sia al pascolo, ma non è universalmente vero, ndr), sarà ora difficile che una notizia del genere faccia presa sul pubblico tanto da mettere in dubbio quel che tutti ormai credono.
Ma vediamo bene da vicino cosa ci raccontano le cronache di questa ricerca e quali sono le prospettive che ci si può attendere dai suoi sviluppi.
Il gruppo di lavoro, coordinato dai professori Pierlorenzo Secchiari e Marcello Mele, docenti di di Zootecnia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, a cui partecipano anche gli atenei di Bologna, Cagliari, Firenze, Milano, Piacenza, Salerno e Sassari e l’Inran (Istituto Nazionale Ricerca Alimentie Nutrizione) di Roma, rappresenta uno dei più ampi e autorevoli gruppi di lavoro che si siano mai cimentati in una ricerca sugli effetti dell’alimentazione di lattifere. «Il nostro scopo», ha spiegato il professor Mele, «è quello di migliorare naturalmente, e non con l’uso di farmaci, la qualità dei cibi che finiscono sulle nostre tavole».
Il pecorino anti-colesterolo, prodotto dal latte di una cinquantina di pecore alimentate con una miscela di mais, orzo, cereali e soprattutto semi di lino (30% o più della dieta) «è in grado di prevenire», ha spiegato Mele, «e in alcuni casi anche di ridurre, l’aumento dei livelli di colesterolo. La sua produzione non prevede l’utilizzo di sostanze artificiali, ma segue un procedimento naturale. Noi agiamo sulla materia prima e cioè sull’alimentazione degli animali».
Il risultato di tale alimentazione è un latte dal quale ottenere formaggi con un contenuto quintuplicato di Cla (acido linoleico coniugato), molto efficace contro il colesterolo Ldl (il cosiddetto colesterolo “cattivo”, ndr).
Gli effetti benefici del pecorino anti-colesterolo sono stati testati presso l’Ospedale Brotzu di Cagliari su due gruppi di volontari che hanno consumato ogni giorno, per un minimo di tre settimane, una porzione di formaggio a testa.
Nel primo gruppo, composto da quarantina persone con un colesterolo normale non sono state registrate variazioni nel livello di colesterolo, vale a dire che questo formaggio non comporta innalzamento del livello di Ldl. Nel secondo gruppo di volontari, venti, che prima della ricerca avevano un elevato livello di colesterolo, è stato registrata a distanza di un mese e mezzo dall’inizio della dieta un’apprezzabile riduzione dell’Ldl. «Il loro livello di colesterolo è diminuito all’incirca del 10%», ha assicurato Mele.
Attualmente la ricerca è stata allargata con le medesime finalità alla produzione di carne. «Abbiamo sottoposto un gruppo di agnelli», spiega Mele, «a una dieta simile a quella delle pecore: cibo arricchito con semi di lino e scarti di produzione dell’olio d’oliva. Presto passeremo ai test sui ratti. Le cavie saranno nutrite con il grasso di questi agnelli e vedremo se riusciremo a registrare risultati simili a quelli ottenuti con il formaggio di pecora».
Il gruppo di lavoro è ora in attesa di formalizzare la sua partecipazione al bando europeo sullo Sviluppo Rurale e sul trasferimento tecnologico, con lo scopo di trasferire i risultati della ricerca alle aziende. «Abbiamo intenzione», rivela Mele, «di applicare le nostre scoperte alla produzione e alla commercializzazione di prodotti su larga scala, vale a dire a livello nazionale. Al momento sono interessati al trasferimento tecnologico due caseifici».
In attesa di saperne di più sugli sviluppi futuri dell’operazione ci sorgono due dubbi che contiamo di chiarire in un prossimo futuro: quanto inciderà sui ruminanti un’alimentazione diversa da quella naturale, ovvero del pascolo? E che deriva prenderà la cosa se dovesse un giorno approdare a sbocchi industriali (le logiche dell’industria puntano a razionalizzare, abbassare i costi di produzione e giocarsi sul piano del marketing tutto quanto di buono si possa raccontare: anche ciò che putacaso si può essere perso per strada…)?