Incongruenze e difformità riscontrate tra regione e regione nell’approccio al riconoscimento dei caseifici d’alpeggio e nella gestione dei controlli consentono ampi margini di miglioramento dell’efficacia e della semplificazione delle procedure, a vantaggio degli operatori e della valorizzazione di quelle produzioni.
Giovedì e venerdì della scorsa settimana si è tenuto a Tomezzo, in provincia di Udine, un importante evento in tema di malghe e di alpeggi, con un dibattito sui prodotti caseari di malga dell’arco alpino (e confronto tra le “buone prassi veterinarie” nella sanità pubblica) che ha coinvolto rappresentanti dei servizi veterinari di Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Provincia Autonoma di Trento, Provincia Autonoma di Bolzano e Friuli Venezia-Giulia. Alle due giornate hanno preso parte numerosi veterinari e tecnici, ma anche operatori lattiero-caseari, rappresentanti di associazioni, allevatori e malghesi, che hanno gremito l’Aula Magna dell’Istituto Solari (una scuola molto orientata alla montagna che ha attivato un corso sulla bio-edilizia del legno).
Le incongruenze tra le prassi di riconoscimento e controllo
Di incontri e convegni sul tema delle produzioni d’alpeggio e del difficile applicazione delle norme igienico-sanitarie a questa realtà ne sono stati organizzati parecchi dai tempi del Dpr 54/97 in poi. Qualcuno anche con la partecipazione di rappresentanti di diverse regioni. Questo di Tolmezzo, però, organizzato dalla U.O. Assistenza Veterinaria dell’ ASL Alto Friuli è stato impostato in modo da consentire un confronto serrato e approfondito che, a detta dei partecipanti, ha raggiunto lo scopo prefissato. Esso consisteva nel far emergere senza falsi pudori incongruenze e difformità nell’applicazione delle normative per arrivare a formulare indicazioni per lo sviluppo di linee guida nazionali che tengano conto della specificità del sistema di malga. Con lo scopo dichiarato di contemperare le comprovate e reali esigenze di sicurezza alimentare con la valorizzazione degli aspetti tradizionali e le altre potenzialità multifunzionali del sistema all’interno di criteri di sostenibilità ambientale ed economica. All’interno di questi obiettivi si assegna notevole importanza alla semplificazione documentale nelle fasi della produzione con l’adozione di Buone Prassi Veterinarie – punto cruciale per la definizione di procedure condivise ed armonizzate del controllo ufficiale.
Una prima macroscopica differenza è emersa sin dalle prime esposizioni della situazione della Valle d’Aosta e della Lombardia. In queste regioni, dove una componente significativa della produzione d’alpeggio è destinata al mercato nazionale e internazionale, i caseifici d’alpeggio sono invariabilmente “riconosciuti”, hanno perciò il “Bollo CE” e rientrano nelle previsioni del reg. 853/04. I rappresentanti dei servizi veterinari del Veneto e del Friuli si sono molto sorpresi di questo fatto, così come dell’assegnazione di un unico numero di identificazione dell'”impianto” anche per gli alpeggi con più “tramuti”, “mutate” “calecc”, ovvero “stazioni” dell’alpeggio dove si lavora il latte.
“Nel caso di più strutture situate in un unico alpeggio (Alpe) a diverse altitudini ed utilizzate dallo stesso caricatore in tempi diversi, almeno la struttura principale di lavorazione e deposito del formaggio deve avere i requisiti sotto elencati; le altre strutture che vengono utilizzate saltuariamente e per tempi limitati possono avere requisiti meno rigidi purché vengano utilizzate esclusivamente per le prime fasi di lavorazione del latte, subito dopo la mungitura e per la preparazione di formaggi con più di 60 giorni di stagionatura” (Giunta Regionale della Lombardia, deliberazione n. VI/42036 del 19.3.1999)
Prescrizioni e dissuasioni a volte inspiegabili
Veneti e friulani si sono chiesti: “ma come fate ad ottemperare ai requisiti di potabilità vista la difficoltà di verificarla nelle condizioni dell’alpeggio?”. La risposta ha lasciato ancora più sconcertati gli “orientali” dal momento che è emerso che a ovest non solo sono diffusi i “potabilizzatori” a raggi UV ma si opera il controllo dell’acqua in regime di autocontrollo. In realtà questo è perfettamente legittimo e l’affidamento ai controlli ufficiali praticato ad Est rappresenta uno dei tanti esempi di “eccesso di zelo”. Va subito detto, però, che lo zelo (ingiustificato) è uniformemente ripartito tra ovest ed est. In Piemonte, per esempio, (almeno in alcune ASL) si impone un’altezza minima dei locali del caseificio di 2,7 m che preclude la ristrutturazione di moltissimi fabbricati o la loro profonda alterazione (tanto che questa prescrizione ha una certa responsabilità nel mantenere “in nero” la lavorazione su diversi alpeggi). In realtà la norma europea (allegato II del reg. 852/04) dice solo che: “i soffitti (o, quando non ci sono soffitti, la superficie interna del tetto) e le attrezzature sopraelevate devono essere costruiti e predisposti in modo da evitare l’accumulo di sporcizia e ridurre la condensa, la formazione di muffa indesiderabile e la caduta di particelle”.
In Lombardia è tutto rose e fiori? In realtà in Lombardia (Valtellina in particolare) in anni non lontani sono state applicate alla produzione del burro di malga restrizioni tali da farne quasi scomparire la produzione. Sempre in Valtellina, per gli stessi motivi, è scomparso l’uso dell’agra in qualità di acidificante nella produzione di ricotta. Recentemente ho scoperto che in Piemonte è ancora usata e a Tolmezzo i veterinari della U.O. assistenza veterinaria mi hanno confermato che è regolarmente utilizzata nelle loro malghe e che su di essa vengono anche eseguiti dei controlli microbiologici. Sempre in Friuli si registra un ampio ricorso alla affumicatura della ricotta stessa mentre in Trentino, dove pure è praticata in condizioni molto controllate in apposite camere, la Azienda sanitaria provinciale cerca di scoraggiarla adducendo il rischio del benzopirene e degli Ipa (Idrocarburi Policiclici Aromatici). In realtà il professor Giaccone (autore della relazione sui rischi igienici della produzione di malga) sostiene che è più rischioso il fumo chimico liquido utilizzato dai caseifici industriali per via della grande difficoltà di dosaggio. Molto più critica del dosaggio del fumo vero.
di Michele Corti
La cronaca prosegue sul blog Ruralpini trattando di:
– Adeguamenti formali non sempre equivalgono a miglioramenti
– Quelle cantine stravolte
– Produzioni diverse, rischi diversi
– “Fresco” e “stagionato” non sono il solo elemento di valutazione
– Progetto Piccole Produzioni locali
(per leggerla clicca qui)
9 febbraio 2013