Codice etico AmAMont per tutelare l’alpeggio

Il Codice etico dell’alpeggio e il Protocollo tecnico per la gestione dei pascoli alpini sono stati approvati dall’assemblea dell’AmAMont (associazione Amici degli Alpeggi e della Montagna) nel corso del recente incontro che l’associazione italo-svizzera ha tenuto a Breno , in provincia di Brescia. I due documenti, che sono stati lungamente discussi all’interno del comitato scientifico dell’associazione e tra i soci, sono stati poi presentati ai diretti interessati: i caricatori d’alpe (a seconda delle zone, detti anche “margari” o “malghesi”) da una parte e i proprietari e gli enti di gestione degli alpeggi dall’altra.

Ma perché un Codice etico dell’alpeggio?
L’idea del Codice nasce sin dai primordi della costituzione di AmAMont, nel 2007.  Deriva dalla considerazione che – sulla carta – esistono già un insieme di prescrizioni contenute nei capitolati d’affitto o  parte delle buone pratiche agronomiche (al cui rispetto dovrebbero essere condizionata l’erogazione dei contributi pubblici). Ma sono poco rispettate e in parte superate e poco rispettate.

I controlli di tipo amministrativo e burocratico sono scarsamente efficaci. Spesso si riducono alla verifica via satellite delle superfici per le quali sono stati richiesti i contributi mentre i minuziosi controlli che un tempo esercitavano il Corpo Forestale e le Guardie campestri dei comuni rappresentano un lontano ricordo.

Molto spesso gli enti proprietari degli alpeggi non dispongono di competenze e personale adeguati a questi compiti ed è spesso venuto meno anche l’interesse per le stesse proprietà d’alpeggio.

D’altra parte il mancato rispetto delle buone pratiche di un tempo è spesso legato a situazioni oggettive che prescindono dalla buona volontà dei caricatori e un approccio puramente amministrativo, sanzionatorio, non sortirebbe alcun risultato se non quello di scoraggiare ulteriormente gli alpeggiatori.  

Il Codice pertanto non consiste in una serie di prescrizioni tecniche minuziose ma nell’adesione volontaria ad una serie di principi tra loro coerenti. Si tratta di un impegno d’onore sottoscritto liberamente da coloro che conducono gli alpeggi e si riconoscono  essi stessi nei princìpi contenuti nel Codice.

Alla base dell’impegno vi è il riconoscimento che l’alpeggio rappresenta un bene prezioso frutto del sacrificio delle generazioni passate che deve essere conservato a favore di quelle future. Viene a questo proposito richiamata la formula molto efficace elaborata dalle comunità contadine del Sud America: “la terra non ci è data in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli”. I sette punti dell’impegno del Codice etico riguardano gli animali (la scelta dei tipi idonei: specie, razze), il governo del pascolo, l’integrazione alimentare, il rispetto dei valori naturalistici e la ‘convivenza’ con la fauna selvatica, le produzioni casearie. Non si indicano parametri, ma si richiama la necessità di rispettare dei princìpi.

Partire dall’animale giusto
Alla base di tutto vi è la necessità di tornare all’utilizzo delle razze di montagna a duplice attitudine abbandonando Frisona e Brown Swiss per sostituirle con tipi come la Rendena, la Grigia, la Pezzata Rossa, la Bruna originale. Attraverso l’incrocio o l’acquisto di capi in purezza molti lo stanno già facendo.

L’utilizzo di animali adatti può apparire un impegno difficile. Si tratta di “tornare indietro”, rinunciare alle mucche che producono trenta e più litri di latte al giorno. L’obiezione che viene solitamente avanzata è: “Le razze più da montagna vanno certo meglio in alpeggio, ma l’alpeggio dura 2½-3 mesi, negli altri la mucca deve produrre molto per poter pagare il fieno acquistato, i mangimi, i farmaci, il veterinario, l’ammortamento dei macchinari e con il prezzo del latte…”. Insistere su una zootecnia di montagna “a misura d’alpeggio” basata su animali in grado di utilizzare al meglio i pascoli non è una idea bucolica, bensì la condizione necessaria per garantire un futuro agli allevamenti di montagna.

Le vacche “spinte” in alpeggio possono danneggiare il pascolo con il loro peso, non utilizzano i pascoli meno comodi e richiedono l’integrazione con mangimi. Il risultato è che il potenziale foraggero si riduce perché i pascoli meno comodi sono invasi dai cespugli, mentre quelli “comodi” si deteriorano per l’eccesso di fertilizzazione (le vacche sostano qui a lungo e “restituiscono” al pascolo con le loro deiazioni una quantità di nutrienti elevata, derivante dalla quota non digerita dei mangimi somministrati). Ed è evidente che così facendo non c’è un futuro.

Se invece si utilizzano animali adatt,i si recuperano superfici di pascolo, si limita la spesa per integrazione alimentare, si ottiene un latte di maggior pregio che vale la pena caseificare con le tecniche artigianali – lente e attente – di un tempo, ottenendo prodotti di eccellenza che spuntano prezzi in grado di ripagare le necessarie cure per il pascolo, la minor produzione unitaria, le maggiori attenzioni durante la lavorazione del latte e durante la stagionatura del formaggio.
 
E in stalla?
Qualcuno obietterà: “Va anche bene, ma poi, a fine estate, quando si scende in stalla, che si fa?”. La risposta la possono dare molti allevatori che hanno fatto la scelta di ridurre la quantità del latte prodotto, optando per la caseificazione aziendale. Da questo punto di vista non è sempre indispensabile investire in un caseificio e in attrezzature; timidamente qua e là riaprono le vecchie latterie di paese che consentono a un numero limitato di aziende di caseificare, insieme o separatamente, secondo varie formule di collaborazione.

Quanto al mercato, la straordinaria novità di questi anni è che il rispetto di un Codice etico e l’adozione della filosofia della qualità al posto della quantità non si scontrano più con un mercato sordo e anonimo ma con consumatori in carne e ossa che entrano in contatto personale con  produttori e vedono con i loro occhi come operano. E che sono disponibili a riconoscere un prezzo etico, basato su quanto proposto dal produttore sulla base dei suoi costi reali. Lo fanno singolarmente, o attraverso alcuni Gruppi d’Acquisto Solidali, entrando in schemi di collaborazione con i produttori che vanno ben al di là del semplice rapporto di compravendita.

A ciò si affiancano affinatori, rivenditori specializzati, ristoratori singoli o associati che sono disponibili anch’essi a riconoscere un “premium” per il prodotto artigianale di qualità. Insomma, oggi passare dalla quantità alla qualità non è un salto nel buio.

Se la qualità c’è, e se incontra un mercato non anonimo e non acritico e che sa riconoscerla, il più è fatto. Vi è poi da considerare che una produzione ridotta significa minore dipendenza dal mercato per il fieno e minore uso di mangimi. Gli animali sono più longevi e si ammalano meno (meno costi di rimonta, per veterinari e farmaci). Con vacche a duplice attitudine si migliora la produzione di carne (che può essere valorizzata con le vendite dirette e la lavorazione aziendale). Aggiungiamo che animali più rustici consentono di anticipare e posticipare la stagione d’alpeggio utilizzando – dove le strutture sono adeguate – anche quei pascoli meno comodi, collocati ad altitudini inferiori (i “mezzi alpeggi” o “maggenghi” d’una volta). Così facendo il periodo di pascolo tornerebbe a 4-4½ mesi  determinando un ulteriore risparmio di foraggio conservato.

28 aprile 2010

articolo liberamente tratto da Ruralpini di Michele Corti

Per altri approfondimenti, si rimanda il lettore al sito di Ruralpini < http://www.ruralpini.it/Inforegioni23.04.10.htm >  dal cui testo questo nostro articolo è stato elaborato