
È complesso il mondo delle confederazioni agricole. Complesso e popolato di operatori, dirigenti, sezioni, competenze. Oggi la cronaca ci porta a conoscere un poco meglio la Confagricoltura, una realtà che – pur non essendo la prima tra le rappresentanze agricole – ha la sua bella sede nazionale, a Roma, e poi le varie strutture provinciali che operano sul territorio.
Nell’àmbito nazionale la medesima confederazione si è strutturata in varie federazioni, ognuna delle quali è dedicata ad un settore produttivo. Quella operante nel nostro è la Federazione Nazionale Prodotto Lattiero-Casearia, che localmente ha vari presidenti di sezione.
Bene, martedì scorso la presidentessa della Federazione Nazionale Prodotto Lattiero-Casearia di Piacenza, Elena Ferrari, ha deciso di dire la sua a proposito di quanto emerso dall’ultima assemblea del Consorzio del Grana Padano e dalla più recente riunione nazionale della sua federazione. E ne sono uscite cose molto interessanti.
«Dall’incontro organizzato dalla Federazione Nazionale», ha esordito Ferrari, «è emerso che nel corso del 2017 c’è stato un aumento della produzione di latte del 5.7%, per quanto riguarda i volumi europei, e del 4.5% su base nazionale. Il latte in più, non potendo essere interamente convogliato nelle produzioni Dop, che dovevano rispettare i piani produttivi, è stato dirottato nella produzione di similari (Qualeformaggio ne ha parlato, il 15 gennaio scorso) e in latte alimentare».
Una situazione non rosea, certo, che aiuta però a capire i dati emersi dall’assemblea del consorzio del 2 febbraio: a fronte di una produzione di quasi 5 milioni di forme (4.940.054, per un valore lordo di 1,3 miliardi di euro circa), con un +1,7% nei consumi rispetto all’anno precedente, circa 1,8 milioni di forme hanno varcato il confine nazionale, facendo registrare un incremento dell’export del 2,5% rispetto al 2016.
Bene, o quasi, almeno secondo Ferrari, visto che «sarà anche il formaggio Dop più consumato al mondo, come recita il comunicato del Consorzio, ma fuori dall’Unione Europea sono andate solo 500mila forme di Grana Padano, e viene fatta, in proporzione, ancora poca pubblicità all’estero, privilegiando il marketing nel mercato interno».
Spingere sull’acceleratore dell’export
“Per il Consorzio”, sottolinea in un comunicato la Confagricoltura di Piacenza, “l’aver esportato il 40% delle produzioni è un risultato positivo e la priorità, per il 2018, è dichiarare guerra ai similari”, ma questo non deve bastare, secondo Ferrari: «Se non si spinge sull’acceleratore dell’export dando la possibilità ai produttori di trasformare il latte che stanno producendo in più in Grana Padano Dop, si rischia di lasciare ulteriore spazio alla produzione di prodotti similari che una volta conquistate fette di mercato non retrocederanno».
Per capirlo sarà anche bene guardare all’andamento dei prezzi, visto che quello registrato nel mese di febbraio ha subìto una contrazione del 13% circa rispetto allo stesso mese del 2017, mentre il Parmigiano Reggiano è rimasto stabile anche perché il “cugino migliore” del Grana, avendo quotazioni più alte, sentirebbe di meno la concorrenza dei similari.
A tale proposito Ferrari non le manda di certo a dire: «Bisogna prendere atto di una necessità del mercato: ben vengano gli interventi di marketing e sul packaging che vuole il Consorzio, finalizzati alla miglior distinzione dai similari, soprattutto nella grande distribuzione e nel settore della ristorazione, dato che il 50% degli acquisti viene effettuato per confusione. Ma i nuovi sbocchi devono rimanere il volàno della strategia, altrimenti ad uscirne penalizzati saranno, ancora una volta, gli allevatori, che tolto il contingentamento delle quote latte si trovano quello delle “quote formaggio”».
L’importanza della comunicazione
Ma non è solo su questo fronte che bisogna operare, secondo Confagricoltura: uno dei punti fondamentali discussi all’interno della Federazione Nazionale di Prodotto ha infatti riguardato “la necessità di effettuare piani di comunicazione ministeriali condivisi con le associazioni di categoria, per contrastare le continue campagne denigratorie nei confronti degli allevamenti e conseguentemente di tutti i prodotti di origine animale”. Vale a dire che se i vegani e gli animalisti attaccano la zootecnia intensiva per il non-benessere-animale che vige in essa, le associazioni chiedono fondi pubblici (i nostri soldi, ndr) con cui convincerci che tutto va bene.
A tale proposito Ferrari abbraccia il comune sentire di chi vuole che la zootecnia spinga sull’acceleratore delle produzioni, “senza se e senza ma”: «Quotidianamente ci confrontiamo con una comunicazione faziosa al consumatore che facendo pretestuosamente leva su motivi pseudo-etici e salutistici, mira all’esclusione del consumo dei prodotti lattiero-caseari». E qui di puntini sulle “i” ne servirebbero molti, visto che di prodotti etici la zootecnia estensiva, a differenza di quella intensiva, ne produce. E che le critiche a cui Ferrari si riferisce non sono rivolte all’unisono – se non dalla banda dei vegan-animalisti più integralisti – verso tutte le produzioni animali.
Lisozima: il trionfo di una verità parziale
«Prendiamo ad esempio», prosegue Ferrari raccontando una verità assai parziale, «l’uso virtuoso di lisozima per la produzione del Grana e le infondate preoccupazioni dei consumatori: nei fatti si tratta di un enzima naturale estratto dall’albume dell’uovo, dunque non è nocivo, serve anzi come antibatterico naturale (è anche nella saliva, nelle lacrime umane e nel latte di donna), l’unica controindicazione consiste nel fatto che, essendo un allergene, è sconsigliato solo per i soggetti allergici a uova e derivati e come tale comparirà in etichetta».
Peccato che ancora una volta non si abbia il coraggio di raccontarla sino in fondo, la questione del lisozima. La domanda da farsi – che davvero in pochi si pongono, ma che è bene chiedersi e a cui è doveroso rispondere – è sul perché il lisozima venga utilizzato, e non solo su cosa sia e su quanto sia innocuo (lo è per chi non è allergico alle uova, quindi ci si deve battere per l’indicazione sugli allergeni in etichetta, ndr).
Per dirla tutta, bisogna sottolineare che il lisozima – conservante naturale con azione antibatterica – viene utilizzato per evitare la proliferazione dei batteri butirrici presenti nel latte di vacche alimentate ad insilati. In assenza di lisozima essi provocherebbero il gonfiore tardivo dei formaggi, causato dalle cosiddette “fermentazioni butirriche”, che porterebbero alla spaccatura dei formaggi in corso di stagionatura. Difficile spiegarlo alla gente? A noi sembra di no.
Ma Elena Ferrari ha altri obiettivi, evidentemente, diversi da quello di garantire ai consumatori il diritto di essere informati, se dice – come dice – che «una comunicazione efficace e veritiera è sicuramente il fronte comune da cui partire». Di quale verità essa parli non è facile da intendere. «Sul tema specifico di questo additivo», conclude l’esponente di Confagricoltura, «sarebbe il caso che anche il Consorzio del Grana Padano riflettesse su quanto la tecnologia agroalimentare oggi consente di fare per offrire alle persone allergiche un’alternativa». Domande e riflessioni che verosimilmente non troveranno mai risposta. I problemi contingenti del Consorzio sono altri, adesso, e ancora una volta il racconto della vera verità potrà e dovrà attendere.
26 febbraio 2018