
Sono bastati pochi giorni – appena novanta – e le gravi accuse lanciate da CiWF (Compassion in World Farming) agli allevatori della filiera del Parmigiano Reggiano, e del Grana Padano, sembrano essere definitivamente rimbalzate sulle coscienze degli interessati. I nostri lettori più attenti senza dubbio lo ricorderanno: correvano i primi dello scorso dicembre, quando l’associazione animalista lanciò un’invettiva in difesa delle vacche utilizzate per produrre il latte destinato a quelle due Dop. Un’invettiva che ottenne un grande risalto mediatico in Italia e nel mondo.
La critica, sacrosanta, ancorché irricevibile – come la definimmo noi – puntava il dito contro i metodi di allevamento (mai al pascolo, se non in rarissimi casi, ndr) ormai adottati dalla maggior parte degli allevatori delle due filiere in oggetto. E contro un’alimentazione, basata più sui mangimi che sull’erba ed il fieno, come si converrebbe per prodotti considerati al “top” del settore, essendo le vacche degli erbivori, non degli onnivori.
Una logica che sottende alla necessità degli operatori di produrre quantità (peccato che “quantità” non faccia rima con “qualità”, ndr), quella dei mangimi, per cui nell’ambiente zootecnico padano vige la logica – una convinzione inamovibile per i più – che per produrre formaggio, quindi latte, bisognerebbe “spingere” le lattifere oltre la loro naturale soglia produttiva. La qual cosa si fa con un’alimentazione definita “spinta”, per l’appunto, e basata su un rilevante apporto di mais (anche oltre i dieci-dodici chili per capo al giorno, ndr).
Ultima, ma solo in ordine di tempo, a lamentare la contrazione produttiva di questo cereale, è stata, lunedì scorso, tale Valeria Villani, coordinatrice in seno alla Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) di AGiA (Associazione Giovani Agricoltori). Una contrazione causata dalla sempre maggiore diffusione delle aflatossine in quelle coltivazioni, che a rigor di logica dovrebbe spingere verso altre soluzioni meno problematiche per l’ambiente, oltre che per gli animali, già che all’aumento della resa lattifera corrisponde un’aspettativa di vita anche molto ridotta (dai sedici anni di una vacca da 15 litri al giorno a meno di cinque per gli esemplari spinti oltre i quaranta litri, ndr).
«La tendenza dura da un decennio», ha esordito Villani, «e l’anno scorso ha fatto registrare un’annata tra le più difficili, caratterizzata da un’estate particolarmente calda e siccitosa, tanto che si stima un calo produttivo del 20% rispetto all’anno precedente; ma al di là dei fattori contingenti, prosegue l’abbandono delle superfici, tanto che nel decennio siamo passati dall’autosufficienza produttiva ad un deficit del 50% del nostro fabbisogno. Questo però potrebbe diventare un problema serio, in primo luogo per i grandi prodotti Dop di origine animale, in particolare salumi e formaggi». A quale grandezza si riferisca non è dato al momento saperlo.
«Anche nella nostra provincia (quella di Reggio Emilia, ndr)», ha proseguito la rappresentante degli agricoltori della Cia, «i dati sono significativi: se nel 2010 i dati ufficiali dicono che a mais avevamo seminato 8.800 ettari, nel 2016 siamo scesi a 5.900, oltre un terzo in meno; tendenza che risulta proseguita anche nel 2017, anno per il quale non ci sono ancora i dati definitivi, mentre anche per le prossime semine, i fornitori del seme hanno il sentore di un ulteriore calo».
E così una criticità che potrebbe essere riconvertita in chiave positiva viene presentata come un elemento unicamente negativo, sul quale piangere aiuti e commiserazioni: «Una criticità è il problema delle micotossine», ha insistito Villani, «contaminanti naturali prodotti dall’attività di muffe (aspergillus flavus e aspergillus parasiticus, ndr), che ha profondamente influenzato le filiere e i mercati del mais a causa dei rischi che comportano, anche se va detto che il limite di presenza previsto in Italia è molto più basso, quindi prudenziale, rispetto agli altri Paesi». Un’affermazione, quest’ultima, che non lascia intravvedere niente di buono, quasi a dire che sarebbe ora di rivedere i limiti al rialzo, allineandoli a quelli vigenti in mercati “evoluti”, come accade negli Stati Uniti.
E qui viene il peggio nel ragionamento, perché – sostiene la Villani – «abbiamo la necessità di trovare le soluzioni per invertire questo trend negativo» e che «in caso contrario c’è il rischio di mettere in pericolo il patrimonio delle denominazioni di origine protette». Come se invece non fosse giunta l’ora di produrre di meno, in un Paese e in una società che consuma molto più di ciò di cui ha bisogno, e che manda buona parte di quelle produzioni direttamente dai frigoriferi alle pattumiere.
«Questo cereale», aggiunge la rappresentante della Cia, affermando una grande non-verità, «è infatti la base per l’alimentazione di tutto il patrimonio zootecnico del Paese (falso: esistono in Italia produzioni estensive di latti, carni e derivati caratterizzate da valori nutrizionali e salutistici superiori, che tutti dovremmo preferire, ndr), imprescindibile quindi per quasi tutte le produzioni Dop simbolo del made in Italy alimentare nel mondo che, infatti, ne prevedono l’utilizzo, per almeno il 50% sotto forma di mangime nei disciplinari di produzione; ormai siamo al limite, dato che l’importazione sfiora il 50% del nostro fabbisogno».
«Un contributo importante», incalza Villani, concludendo, «può venire dalla ricerca, ma tutta la filiera produttiva deve essere impegnata a recuperare questa produzione, decisiva per la distintività dei nostri più grandi prodotti». Affermazioni che vanno lette come una grave forzatura, e come tale rigettate da quanti amino la verità più vera e la trasparenza cristallina: perché non è un marchio (Dop, Igp, Stg o Bio) a fare la differenza e a indicare la qualità reale, ma i suoi valori intrinseci: se l’animale è libero di pascolare il prodotto sarà migliore, se mangerà più erbe diverse (fieno polifita nelle stagioni avverse) sarà migliore. E se il suo profilo acidico sarà migliore (rapporto Omega6/Omega3 inferire a 3, ma ancor meglio tendente ad 1, laddove le produzioni intensive si spingono ben oltre la soglia del 4, ndr) potremo parlare di qualità senza tema di smentita; se tra i suoi micronutrienti riscontreremo alti valori di antiossidanti, anticancerogeni e vitamine – riscontrabili nelle produzioni estensive – potremo dire di aver ottenuto un prodotto davvero salutare.
Tutti fattori, questi, che guardano in direzione opposta all’abuso di mais e di altri mangimi, per cui sarebbe giunta anche l’ora di guardare ad un problema da una prospettiva nuova, e di adoperarsi per convertirlo in un vantaggio. Che si torni a mandare l’erbivoro all’erba, quindi, e che si abbassino i livelli produttivi. Fatto ciò si useranno i termini oggi abusati da molti – di “qualità”, “eccellenza”, etc. – in maniera propria, senza mistificare. Come oggi ancora fanno i soliti noti, a partire proprio da chi il “pascolo zero” non sa più neanche dove sia o come si faccia.
5 marzo 2018